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Ultimi giorni disponibili per visitare “Not afraid of love”, la retrospettiva dedicata al più quotato artista italiano vivente che, malgrado il ritiro annunciato nel 2011, è tornato alla ribalta nel sontuoso spazio espositivo della Monnaie.
File interminabili, ore d’attesa, assembramenti domenicali che hanno persuaso più di qualcuno a posticipare la visita: l’afflusso di pubblico è stato tale da non lasciare ombra di dubbio circa la risonanza e l’interesse riscossi da un artista che, dopo la solenne consacrazione ricevuta nel 2011 al Guggenheim di New York aveva annunciato l’imminente ritiro.
E invece riecco Maurizio Cattelan a Parigi, sul lungo-Senna di quai de Conti, in uno degli spazi espositivi più seducenti e prestigiosi che la capitale francese possa regalare, al centro di un percorso che ha tutta l’inequivocabile aura del tributo.
Per la retrospettiva Not afraid of love che la Monnaie, già sede della zecca di stato francese, accoglie fino all’8 gennaio, è stata infatti coniata la bizzarra formula di mostra “post requiem”, ovvero successiva allo smentito commiato newyorkese: “Come nella novella di Poe, faccio finta di essere morto –ha dichiarato Cattelan – ma posso ancora vedere e sentire quel che accade intorno”.
Eppure, malgrado l’artista abbia tentato di schermirsi con ogni possibile sforzo di autoironia pur di scongiurare la retorica dell’autocelebrazione (“L’atmosfera non mi pare quella di ‘torna a casa Lassie’”, ha tenuto a precisare in un’intervista), non si può negare che l’evento sfoggi tutti i crismi di un vero e proprio omaggio a qualcuno che, piaccia o no, è ormai assurto al rango di vero e proprio “classico” dell’arte contemporanea, ugualmente presente all’attenzione di detrattori ed estimatori.
Protagoniste assolute e determinanti dell’intera esposizione sono le sontuose architetture settecentesche della Monnaie, al cui interno la curatrice Chiara Parisi ha intessuto un percorso narrativo che, di stanza in stanza, connette attraverso un nitido filo logico molte delle più celebri e ormai quasi iconiche opere di Cattelan, tra le quali qualsiasi spettatore, per quanto profano, può senz’altro individuare qualche immagine riconoscibile.
Che si tratti della donna crocifissa (omaggio a Francesca Woodman) affiancata al cavallo penzolante sulla monumentale scalinata d’ingresso, oppure, nel salone principale, del papa colpito dal meteorite (“La Nona ora”) sormontato dal tamburino (già in passato esposto su un cornicione del Louvre) che suona ad intervalli regolari, tutto l’insieme restituisce il senso ultimo dell’espressione site-specific, ovvero l’idea di oggetti che dialogano con lo spazio ed il contesto.
Viene insomma quasi spontaneo pensare che l’allestimento rappresenti la principale opera d’arte della mostra, il più significativo valore aggiunto, poiché la collocazione di ogni pezzo sembra volerne ravvivare il potenziale provocatorio e dissacrante ma, al tempo stesso, trattandosi di icone ormai arcinote e decantato l’eventuale scandalo o stupore prodotto a suo tempo, è come se si cercasse di propiziare una riflessione più pacata e ponderata circa l’effettivo messaggio che esse racchiudono.
Così, il famoso “Him“, cioè la silhouette infantile inginocchiata col viso di Hitler, viene situato esattamente nel punto di fuga in fondo all’infilata di corridoi affacciati sul lungo-Senna, mentre nelle stanze laterali trovano posto altri frammenti narrativi, come ad esempio lo scolaro di “Charlie, don’t surf”, le cui mani sono inchiodate al banco da due matite (riferimento a quell’infanzia che Cattelan definisce “il momento peggiore della mia esistenza, in cui le decisioni erano sempre prese da altri, ovvero genitori, professori etc”), o il mendicante Gérard, sistemato in un angolo appartato in cui il visitatore fatica ad accorgersi di lui.
E se le varie opere sono accompagnate da brevi testi appositamente commissionati ad una serie di noti personaggi dell’intellighenzia e dello spettacolo internazionale (da Jack Lang a Oliviero Toscani, da Christian Lacroix al ministro della Cultura francese e molti altri) chiamati ad esprimersi sull’arte di Cattelan, ad offrire più livelli interpretativi e chiavi di lettura diverse è in realtà l’enigmatico titolo della mostra.
Not afraid of love vorrebbe infatti suggerire, secondo quanto spiegato dallo stesso artista padovano, che non c’è il rischio di trovare amore nelle situazioni raffigurate dalle opere esposte ma che, ciononostante, è proprio nella mancanza o nella ricerca di amore che si può rintracciare la forza che muove il mondo. Eppure, secondo quanto osservato all’inizio, Not afraid of love può anche essere letto come l’ennesimo sberleffo di Cattelan, ovvero una sorta di auto-esortazione a non lasciarsi spaventare dalle celebrazioni.
Per quanto schivo e caratterialmente piuttosto introverso, Maurizio Cattelan è di certo perfettamente consapevole di essere ormai approdato, in qualità di artista italiano vivente più quotato al mondo, nel gotha dell’arte contemporanea.
Nato a Padova nel 1960, autodidatta ed ex-impiegato di un obitorio, si caratterizza fin da subito per la sua spiccata inclinazione al grottesco, all’irriverente e al provocatorio, catalizzando, al di là del successo, una serie di definizioni assai poco lusinghiere, come quella di “furbacchione” (Binstock) o di “pubblicitario” (Vittorio Sgarbi).
In realtà, poiché la sua cifra espressiva coincide con il gesto dadaista, ovvero con la netta prevalenza del messaggio o della componente concettuale sull’oggetto, possiamo considerarlo un artista post-duchampiano, sebbene egli annoveri tra le proprie principali fonti di ispirazione autori come Boetti o De Dominicis.
Le sue sculture, commissionate a laboratori artigianali di fiducia, seppur molto somiglianti ai personaggi ritratti, appaiono lontane anni luce dall’iperrealismo certosino e sbalorditivo di un Duane Hanson o di un John De Andrea, e dunque tali da veicolare un contenuto sostanzialmente scorporato dalla materialità del manufatto e riducibile all’idea o all’immagine
Per gli estimatori irriducibili di Parigi, cioè per quanti puntualmente si emozionano nel contemplare ogni scorcio o prospettiva inedita della Ville Lumière, va segnalato che la mostra andrebbe visitata anche semplicemente per le ineguagliabili inquadrature del “quai” o banchina della Senna osservabili dalle finestre della facciata principale della Monnaie, con la loro unica e particolarissima panoramica sulla rive gauche.
Va inoltre ricordato che con Not afraid of love si chiude un ciclo espositivo al termine del quale la Monnaie, che nel 2017 riapre al pubblico una parte dei propri spazi precedentemente sottoposti a restauro, diventerà protagonista di un nuovo progetto in collaborazione col Centre Pompidou e con Bernard Blistène.
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