Perché i colossi petroliferi statunitensi ora chiedono una carbon tax

La lobby Usa del settore oil&gas preferisce la prospettiva di una carbon tax a quella di leggi più dure. Ci sono vari motivi alla base di questa scelta.

Una carbon tax, cioè l’imposizione di un prezzo per le emissioni di CO2, merita di diventare il principale strumento del governo statunitense contro i cambiamenti climatici. Firmato, American petroleum institute. Nella bozza di una dichiarazione visionata dal Washington Post, la principale lobby dell’industria del petrolio e del gas naturale dichiara quindi di preferire di gran lunga la prospettiva di una tassa a quella di una legislazione più restrittiva. Una presa di posizione apparentemente contraddittoria, quella di aziende che chiedono di tassare i loro stessi prodotti. Cerchiamo quindi di ricostruirne le ragioni e le dinamiche.

L’amministrazione Biden sceglie il clima

“I produttori di petrolio non sono diventati di colpo degli ambientalisti. Semplicemente, sono molto pragmatici”, ci spiega il direttore scientifico di LifeGate Simone Molteni. Si sono trovati alle prese con un nuovo presidente che ha messo al centro della sua campagna elettorale un ambizioso piano per raggiungere il 100 per cento di energia da fonti rinnovabili e azzerare le emissioni nette entro il 2050. Sostenuto da una popolazione per cui il clima è in cima alla lista delle priorità capaci di determinare le proprie decisioni di voto, stando a quanto emerge dai sondaggi. È anche per trasmettere un messaggio chiaro ai suoi elettori che Joe Biden, nel primo giorno del suo insediamento, ha firmato l’ordine esecutivo che riporta gli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi sul clima.

“Se sommi questi elementi, sei un petroliere americano e sei pragmatico, capisci che ti conviene sederti al tavolo delle trattative e cercare un accordo sulla via che non ti danneggia troppo. Perché una carbon tax si può negoziare, ma il problema vero sarebbero le alternative troppo drastiche, come le normative stringenti che obblighino a estrarre meno petrolio”, spiega Molteni. “È una scelta tattica che la dice lunga su quanto conti avere una politica coerente e capace di agire”.

Le argomentazioni a favore della carbon tax

Si schierano nettamente a favore della carbon tax gli accademici Richard Schmalensee e David Schoenbrod, co-autori di un editoriale pubblicato su The Conversation. La tassa, sostengono, ricade in prima battuta sui produttori ma poi si ripercuote a ruota sull’intero mercato, spingendo tutti – dalla multinazionale alla famiglia – a fare il possibile per ridurre il proprio impatto sul clima.

Ai due autori la strada delle leggi appare più farraginosa, esposta a possibili pressioni da parte delle lobby e distante dalle realtà quotidiana (tra i regolatori di Washington e i proprietari di immobili e fabbriche, sostengono, i secondi sono molto più capaci rispetto ai primi di tagliare le emissioni delle loro proprietà per ridurre la pressione fiscale a cui sono soggetti). A far pendere la bilancia dal lato della carbon tax, a detta loro, sono anche le tempistiche, visto che una tassa entra in vigore dall’oggi al domani e i proventi vengono incassati e redistribuiti subito. Viceversa, per capire se le nuove leggi avranno davvero centrato il loro obiettivo bisognerà attendere il 2050, anno in cui l’amministrazione attuale non sarà più in carica.

Carbon tax, il come e il quanto fanno la differenza

“La carbon tax è uno strumento molto potente perché di colpo rende più attrattive ed economiche alcune scelte, non solo per il settore petrolifero ma per tutte le aziende che lavorano con la tecnologia”, conferma Simone Molteni. Anche il direttore scientifico di LifeGate faceva parte del gruppo di esperti che hanno proposto questa misura alla Cop 9 di Milano nel 2003. All’epoca l’idea era quella di partire con una tariffa bassa per dare il tempo agli operatori del mercato di adeguarsi, forti di una precisa tabella di marcia che stabiliva di aumentarla anno dopo anno. “Finora purtroppo questo non è successo e ci troviamo in ritardo. Se si avviasse una carbon tax oggi, i valori di partenza dovrebbero essere molto più alti e la sua capacità di rottura sarebbe molto più netta”, continua.

Finora le proposte passate al vaglio del Congresso si attestano da un minimo di 15 a un massimo di 50 dollari per tonnellata di CO2, si legge su Inside climate news. Il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) ritiene però che servano cifre ben più alte per contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi, scongiurando le manifestazioni peggiori della crisi climatica. Lo Special report 15 consiglia di arrivare, entro il 2030, da un minimo di 135 a un massimo di 5.500 dollari a tonnellata. Questa forbice così ampia è dovuta al fatto che l’efficacia della tassa dipenda anche dalle altre regolamentazioni messe in campo nel frattempo.

“Un altro aspetto da considerare è che la carbon tax si trasforma all’istante in un tema geopolitico, perché non la può attivare un paese solo. Se così fosse, si creerebbero squilibri economici molto importanti perché alcuni stati risulterebbero più competitivi rispetto ad altri. Insomma, la carbon tax è uno strumento molto più potente di quanto si possa immaginare, perché premia chi è virtuoso (soprattutto se lo è da tempo) e sposta gli equilibri del mercato”, conclude Molteni.

Joe Biden nel primo giorno di lavoro alla Casa Bianca
Joe Biden nel primo giorno di lavoro alla Casa Bianca © Chip Somodevilla/Getty Images)

L’amministrazione Biden pensa a nuove regole

Stando a Inside climate news, però, la politica sul clima dell’amministrazione Biden propende sempre più verso l’ipotesi invisa alle big del petrolio: quella delle regolamentazioni più severe e degli incentivi alle fonti rinnovabili. Il timore alla base, probabilmente, è che le inevitabili trattative sul valore della tassa portino a stabilire una cifra troppo bassa, non all’altezza delle promesse del governo in materia di clima.

“Il mio lavoro è quello di stabilire un piano d’azione che utilizzi tutta la nostra esperienza, tutto il nostro budget federale, tutte le nostre politiche, i nostri regolamenti e i nostri standard per guidare davvero il cambiamento che ci serve negli Stati Uniti”, ha dichiarato di recente Gina McCarthy, referente per le politiche climatiche federali, rivolgendosi a una platea virtuale di dirigenti del settore dell’energia e dei combustibili fossili. Il prossimo appuntamento chiave è il 22 aprile, Giornata della Terra, data in cui gli Usa ospiteranno un summit tra le nazioni maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra. In quell’occasione esporranno nel dettaglio il loro piano di riduzione delle emissioni al 2030 e, cosa ancora più importante, le modalità concrete con cui intendono metterlo in pratica.

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