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Il meccanismo di risarcimento ai paesi più vulnerabili (loss and damage) è al centro della Cop27. Ma i piani annunciati finora distraggono dall’obiettivo.
La Cop27 di Sharm el-Sheik, in Egitto, ha superato il giro di boa. La prima settimana dei negoziati sul clima si è chiusa e il tema loss and damage, ovvero il meccanismo di risarcimento verso i paesi più vulnerabili alla crisi climatica, è saldamente al centro dell’attenzione ma è ancora lontano dall’essere definito nei particolari.
Intanto, però, diversi piani finanziari simili sono al vaglio dei delegati e alcuni sono stati annunciati ufficialmente. Tutti hanno un unico scopo: quello di sostenere i paesi del sud del mondo nelle politiche climatiche. I toni trionfalistici che accompagnano l’uscita degli annunci durante la Cop27, però, non devono trarre in inganno: al momento, nessun paese ricco ha ammesso le proprie responsabilità nei confronti dei paesi vulnerabili. Al massimo si parla di qualche prestito a tasso agevolato o di stipulare ingenti polizze assicurative.
Le quattro proposte finanziarie fin qui considerate si chiamano:
I paesi del V-20 (Vulnerable 20 group of finance ministers), gruppo composto da 58 economie vulnerabili guidate dal Ghana, e i paesi del G7 hanno ufficialmente lanciato il Global shield, lo scudo globale contro i rischi climatici, un’iniziativa per il sostegno finanziario ai paesi del sud del mondo e progettato per essere rapidamente implementato in tempi di eventi meteorologici estremi. In sostanza si tratta di
I contributi iniziali vedono la presenza di circa 170 milioni di euro dalla Germania e più di 40 milioni di euro da altri paesi (di cui la Francia con 20 milioni, l’Irlanda con 10 milioni, la Danimarca con 4,7 milioni di euro e il Canada con 7 milioni di dollari). Al Global shield aderisce anche un’ampia coalizione di istituzioni multilaterali e partner del settore privato, tra cui gli istituti assicurativi. I primi destinatari del finanziamento sono Bangladesh, Costa Rica, Fiji, Ghana, Pakistan, Filippine e Senegal.
Questa iniziativa espande la InsuResilience global partnership, lanciata nel 2017 dalla Germania per costruire un fondo di resilienza nei paesi in difficoltà attraverso soluzioni finanziarie e assicurative. Sebbene questa iniziativa affronti in parte il tema del risarcimento, non è la struttura ufficiale del meccanismo loss and damage, e anzi il rischio è proprio quello di distogliere l’attenzione dal loss and damage.
A questo proposito, la rete dei paesi aderenti alla The Loss & Damage collaboration si è interrogata sull’esistenza del Global shield, sostenendo che esso rappresenta più una distrazione che una soluzione: “dato che i paesi ricchi hanno bloccato tutti gli sforzi fino ad oggi per istituire uno strumento di finanziamento per perdite e danni, perché hanno istituito un programma al di fuori dell’Unfccc in cui impegnare così tante risorse?”. La risposta la fornisce la rete stessa: cercare una soluzione al di fuori dei negoziati della Cop27 significa non essere obbligati a incorporarne i principi e minarne i risultati. E poi, solo per le misure di adattamento, ci vorrebbero 300 miliardi di dollari.
Una domanda perenne che incombe sulle conferenze climatiche è come i paesi in via di sviluppo finanzieranno i loro sforzi interni di mitigazione e adattamento al clima estremo. A questo tenta di rispondere la Bridgetown agenda, capeggiata dal primo ministro delle Barbados, Mia Mottley. L’obiettivo è quello di riformare il sistema finanziario in modo che le nazioni vulnerabili non siano più obbligate a scegliere se investire le proprie risorse nel ripagare i debiti verso i paesi ricchi o nella transizione energetica.
Alla conferenza dello scorso anno a Glasgow, in Scozia, due potenziali schemi di finanziamento per il clima hanno ricevuto particolare attenzione. Uno – il Glasgow financial alliance for net zero – consisteva in un impegno da parte di un gruppo di finanziatori del settore privato a rendere più ecologici i propri portafogli di investimenti e sostenere progetti rispettosi del clima nei paesi in via di sviluppo. L’altro era un piano di diversi paesi ricchi per sostenere la transizione del Sudafrica attraverso un mix di 8,5 miliardi di dollari di sovvenzioni e prestiti che è stato visto come un potenziale programma pilota per altri paesi. Un anno dopo, tuttavia, il primo ha vacillato per la severità – dal punto di vista degli investitori – dei suoi obiettivi climatici e il secondo è stato lento a scalare.
Alla Cop27, invece, l’iniziativa di Mottley è stato elogiata pubblicamente da figure chiave come il presidente francese Emmanuel Macron e Kristalina Georgieva, amministratore delegato del Fondo monetario internazionale (Fmi). Mottley e il suo delegato hanno presentato una richiesta una tantum di 650 miliardi di dollari al Fmi (originariamente Mottley avrebbe voluto che tale importo fosse pagato annualmente) e ha chiesto alle banche multilaterali di sviluppo di mettere a disposizione dei paesi in via di sviluppo 1000 miliardi di dollari a tassi di interesse calmierati da usare nelle spese legate al clima (generalmente, sui mercati internazionali i tassi sono compresi tra l’1 e il 4 per cento per i paesi del G7, ma possono raggiungere il 12-14 per cento per gran parte del sud del mondo, come ha affermato Mottley durante la Cop).
Alla Cop27, quattro nazioni, Bangladesh, Ghana, Maldive e Sri Lanka, hanno lanciato i Climate prosperity plans. Lo Sri Lanka richiede investimenti per circa 26 miliardi di dollari da qui al 2030 per produrre energia pulita da esportare verso l’India, realizzare un sistema di trasporti sostenibile e incrementare il grado di resilienza climatica. Per raggiungere tali obiettivi, però, l’isola ha chiesto di ridurre il proprio debito nei confronti della Cina e delle altre nazioni industrializzate. Le richieste del Bangladesh sono simili ma cambia l’importo (130 miliardi di dollari), mentre Ghana e Maldive stanno sviluppando le proprie proposte. A questi paesi si aggiungeranno il Senegal e la Costa Rica.
Il Sudafrica, invece, sta facendo qualcosa di diverso: si tratta del primo paese a presentare un piano di investimenti, chiamato Just energy transition partnership (Jetp). Il piano da 8,5 miliardi di dollari è fortemente incentrato sull’elettrificazione delle infrastrutture, che rappresentano l’81 per cento della richiesta, prevedendo l’incremento di veicoli elettrici, il potenziamento dell’idrogeno verde, nonché lo sviluppo delle competenze e la diversificazione economica.
Anche in questo caso, la sfida dei paesi che vogliono ottenere più fondi sta nel mercanteggiare tassi di interesse agevolati: il Sudafrica ha ottenuto due linee di finanziamento da 300 milioni di dollari ciascuno dalla Francia e dalla Germania.
L’Indonesia ha puntato a un Jetp come quello sudafricano, rivolgendosi in particolare a Giappone, Stati Uniti e Unione europea e, come ha di recente annunciato dal G20 di Bali, ha ottenuto 20 miliardi da usare nel processo di decarbonizzazione. Per il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si tratta del “più grande pacchetto singolo di finanza climatica mai approvato”. Tra i paesi sostenitori c’è anche l’Italia.
Insomma, l’approccio è che per risolvere la crisi climatica servono molti soldi. E i paesi del sud del mondo devono veder riconosciuti i risarcimenti richiesti se vogliono raggiungere obiettivi climatici concreti. Il nord del mondo, dal canto suo, farebbe meglio a riconoscere il proprio grado di responsabilità in questa faccenda, il prima possibile. Perché non è solo questione di denaro: in palio c’è l’esistenza degli esseri umani su questo pianeta.
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