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Ci curiamo, mangiamo, viaggiamo e viviamo tutti i giorni senza valorizzare l’importanza della biodiversità. Alcune semplici regole per conservarla.
Nel 1992 durante la “Convention on Biodiversity” alla United Nation Conference on Environment and Development” (Unced) a Rio de Janeiro, tutto il mondo scientifico ha cominciato a parlare di biodiversità, poi i media, poi noi.
Il problema è che nessuno osa chiedere che cos’è la biodiversità, e pochi conoscono la risposta: è l’abbreviazione del termine “diversità biologica”, usato per la prima volta da Walter G. Rosen nel 1985.
La definizione “ufficiale”, presa dall’Articolo 2 della Convenzione di Rio, è questa:
Diversità biologica: la variabilità tra gli organismi viventi di tutti tipi, includendo ecosistemi terrestri, marini ed altri acquatici, ed i complessi ecologici di cui essi fanno parte; questo comprende anche la diversità all’interno della specie.
Cioè, in un termine, solo tutto ma proprio tutto quello che vive.
Le foreste pluviali tropicali sono la più grande farmacia del mondo. Circa 200 principi attivi impiegati oggi dall’industria farmaceutica (dai quelli per la contraccezione ormonale a tranquillanti e stimolanti) provengono da lì. Il National Cancer Institute, ente governativo americano, ha identificato 1.400 specie tipiche delle foreste tropicali che contengono sostanze utili contro il cancro. Più di 70.000 specie di piante sono usate nella medicina tradizionale e moderna, ma di queste circa 20.000 piante medicinali tradizionali sono a rischio di sovrasfruttamento e alcune rischiano l’estinzione. La vincristina, estratta dalla pervinca tropicale, è uno dei più potenti anticancro conosciuto, specie per la leucemia infantile. Meno dell’1 per cento delle piante tropicali sono state testate dagli scienziati finora.
Sostenere con donazioni e partecipazione le organizzazioni internazionali per la conservazione delle foreste pluviali.
Nelle foreste tropicali crescono circa 3.000 frutti commestibili. Gli indigeni si nutrono abitualmente di 2.000 di questi. Noi, nel mondo occidentale, di 30. Il World resource institute calcola che l’ibridazione di varietà agricole ha causato tra il 1930 e il 1980 un dimezzamento dei raccolti. In Italia (r)esistono migliaia di varietà di mele, pere, cereali e verdure che crescono solo in alcune zone: la natura li ha fatti perfettamente adatti a quel terreno e a quelle condizioni climatiche, e sono resistenti e nutrienti. E rari. Invece noi acquistiamo al supermarket l’uva del Cile e l’aglio cinese. Molti oggi collegano l’esplosione della celiachia con la spaventosa standardizzazione del cibo: invece di nutrirci di cento varietà diverse di grano, ne mangiamo da decenni solo una, e questo è uno dei fattori noti scatenanti di intolleranze.
Scovare i mercatini di produttori locali, specialmente di agricoltura biologica, dove spesso si trovano varietà più rare, locali e meno standardizzate. Interessarsi delle iniziative di Slow Food.
Un interessante e poco prevedibile effetto della standardizzazione delle colture è la riduzione dei contenuti aromatici dei cibi. Il parametro si chiama qualità alimentare edonistica e organolettica. Alcuni sociologi chiamano questo processo Mcdonaldizzazione, ma è inopinabile che la globalizzazione alimentare da un lato permette di ridurre il costo dei cibi, ma dall’altro, introducendo una vera e propria standardizzazione degli alimenti mette a rischio cibi e sapori caratteristici che finiscono per non trovare più spazio nei punti vendita e quindi sulle tavole dei consumatori. Un esempio di ricostituzione artificiale dei sapori persi nella meccanizzazione è una celebre marca di patatine fatte di farina di patate pressoché insapore e ricostituita e aromi artificiali. L’uso di colture magari più rare ma saporite renderebbe meno necessari aromi e additivi.
Esistono alcune associazioni di seed saver, di persone che, volontariamente o organizzati in comitati, custodiscono, scambiano e coltivano le varietà meno conosciute di frutta e verdura, spesso caratterizzate da sapori inusuali e pungenti. Informarsi su come sostenerle.
Secondo l’Unione mondiale per la conservazione della natura (Iucn), il valore economico delle aree verdi del pianeta è stimato in 130 miliardi di dollari l’anno, ovvero quanto il valore delle riserve di oro di Francia e Svizzera messe insieme.
I servizi di un ecosistema dipendono in larga misura dalla biodiversità, la cui funzione economica è legata anche (ma non solo) all’uso produttivo di risorse quali: legname, selvaggina, prodotti agricoli, allevamento, produzioni tipiche e molto altro ancora. Perché bisogna anche contare gli aspetti paesaggistici e i benefici per le politiche economiche derivanti dal mantenimento e dal ripristino della qualità ambientale e della ricchezza della fauna. Particolarmente interessanti sono i vantaggi legati alla riduzione della vulnerabilità ecologica di un sistema: garantire la naturale fertilità del terreni agricoli permette, ad esempio, una riduzione dell’uso dei fertilizzanti.
Esperti di livello mondiale, stanno valutando i crescenti costi dovuti alla perdita di biodiversità e al degrado degli ecosistemi, per richiamare l’attenzione sui benefici economici, oltre che ecologici, derivati dai servizi ecosistemici (The Economics of Ecosystems and Biodiversity – TEEB).
La valutazione del valore economico della biodiversità per il pianeta parte dal presupposto che la tutela di aree e specie protette e lo sviluppo di zone di agricoltura sostenibile possono essere un volano di crescita per tutte le aree geografiche pianeta.
Il Protocollo di Kyoto prevede, tra i meccanismi mondiali della mitigazione del cambiamento climatico, un’attenta ed estesa opera di riforestazione. È scientificamente dimostrato che la riqualificazione di aree ad alto tasso di biodiversità (ovvero, ricche di piante e animali diversi) contribuiscono maggiormente, grazie alla loro vitalità, ad assorbire CO2, il principale gas a effetto serra. Un ettaro di foresta può ospitare oltre 750 specie di alberi e 1.500 specie di altre piante e arbusti.
Gli oceani, il suolo e le paludi, offrono un contributo essenziale per l’assorbimento di CO2. Il fito-placton degli oceani è un serbatoio per l’accumulo e lo scambio dell’anidride carbonica; insieme alle aree verdi ed alle foreste è il principale regolatore della concentrazione di questo gas serra nell’atmosfera.
La mitigazione degli effetti dettati dai cambiamenti climatici è in sinergia anche con la conservazione della diversità biologica, parametro guida per il mantenimento dei servizi ecosistemici.
Tutelare e proteggere le aree verdi tropicali è una delle cose più efficaci, vantaggiose, rapide e vincenti in termini di assorbimento di CO2.
Studiare e aderire ai progetti di riduzione e compensazione della CO2 in Italia basati, come Impatto Zero®, sulla tutela delle aree verdi nel mondo.
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