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Prendiamo oltre 3000 aziende e analizziamo le loro politiche per i diritti umani. L’esito? Non molto incoraggiante. Ma per fortuna c’è chi si distingue in positivo.
Le grandi aziende di tutto il mondo si impegnano a sufficienza sul tema dei diritti umani, dichiarando pubblicamente le proprie responsabilità e i processi messi in atto per rispettarli ed evitare abusi? La risposta, purtroppo, è “non ancora“: lo dimostra una monumentale analisi condotta da Vigeo Eiris su oltre tremila società.
Il punteggio alle politiche aziendali in tema di diritti umani è espresso in una scala da 1 a 100: da 0 a 29 è considerato “scarso”, da 30 a 49 “limitato”, da 50 a 59 “forte” e da 60 a 100 “avanzato”. Facendo la media di tutti i casi analizzati, il risultato è una sonora bocciatura: le aziende si fermano a un misero 32 su 100. Addirittura peggio rispetto alla precedente edizione, che risale al 2012, in cui arrivavano almeno a 37/100.
Il motivo principale di questa flessione, spiegano gli analisti, è da ricercare soprattutto nel fatto che la stragrande maggioranza degli impegni per i diritti umani sono stati presi nei Paesi industrializzati, mentre in quest’edizione il campione è stato ampliato fino a comprendere i Paesi emergenti, dove spesso le regolamentazioni sono meno severe. Nella top 30, non a caso, la predominanza europea è schiacciante.
Nome | Paese | Settore | Punteggio |
---|---|---|---|
Red Electrica Corporacion | Spagna | Energia elettrica e gas | 85 |
E.on | Germania | Energia elettrica e gas | 81 |
Groupe PSA | Francia | Automobili | 81 |
Umicore | Belgio | Chimica | 79 |
La banque postale | Francia | Banche | 79 |
Norsk Hydro | Norvegia | Metalli e miniere | 78 |
Engie | Francia | Energia elettrica e gas | 77 |
Carrefour | Francia | Supermercati | 76 |
L'Oreal | Francia | Cosmetici e beni di lusso | 76 |
Gas Natural Sdg | Spagna | Energia elettrica e gas | 75 |
“Diritti umani”, però, è una definizione estremamente ampia. Scendendo nello specifico, si scopre che il 67 per cento delle aziende comunica le misure che ha messo in atto per combattere le discriminazioni, il 48 per cento rende noti i processi per integrare la tutela dei diritti umani lungo tutta la filiera, mentre solo il 10 per cento cita misure per il rispetto della libertà di associazione dei lavoratori o per il diritto alla contrattazione collettiva.
Meno del 4 per cento delle aziende (per la precisione, il 3,66 per cento) ha formulato impegni, policy e processi globali, integrando con successo i diritti umani nelle proprie strategie e operazioni e nel management. In linea generale il reporting sui diritti umani è limitato, con nette differenze a seconda delle aree geografiche, dei Paesi e dei settori. Le best practices arrivano soprattutto dalle attività tradizionalmente più a rischio: miniere, foreste e carta, tabacco, beni di lusso e cosmetici, telecomunicazioni.
Più di due aziende su dieci, tra quelle analizzate nello studio, si sono trovate di fronte almeno una volta a una controversia legata ai diritti umani. Gli analisti hanno tenuto traccia di 1.122 controversie, la metà delle quali riguarda la violazione di diritti fondamentali come privacy, proprietà privata, libertà di espressione, diritti delle popolazioni indigene ecc. L’11 per cento è legato alle tematiche del lavoro, il 21 per cento a discriminazioni e un altro 17 per cento ad abusi lungo la filiera. Più di un caso su tre arriva dagli Usa, dove è abbastanza comune trascinare le aziende in tribunale. Il settore più delicato è quello bancario, soprattutto per problematiche legate ai progetti finanziati; lo seguono l’alimentare e le miniere.
La cosa che stupisce è che, di fronte ad accuse che possono essere anche molto pesanti, nel 43 per cento dei casi non c’è stata alcuna reazione. Solo tre aziende su 100 si sono dimostrate proattive, consultandosi con i loro stakeholder per trovare una soluzione.
Lo studio è stato condotto da Vigeo Eiris, una delle più importanti agenzie di rating sociale e ambientale in Europa. Si tratta di una monumentale indagine che ha coinvolto 3.189 aziende appartenenti a 38 settori diversi, con sede in trentacinque Paesi tra Europa, America del Nord, Asia-Pacifico e Paesi emergenti. Il periodo di rilevazione è di due anni esatti, tra settembre 2014 e settembre 2016.
Il report non copre il campo dei diritti umani a 360 gradi, ma si focalizza sui quattro argomenti-chiave della responsabilità sociale:
Ma come si arriva a dare un voto a una società? Gli analisti hanno scelto tre dimensioni. Innanzitutto, le linee di condotta stabilite dalle imprese, valutando quanto siano trasparenti ed esaustive e quanto l’azienda stessa vigili sul loro rispetto. Dall’altro lato, la coerenza e l’efficienza delle misure adottate per il rispetto dei diritti umani (processi, monitoraggio, controlli interni, report sulla risoluzione di eventuali problemi). Infine i risultati, vale a dire i dati quantitativi, le opinioni degli stakeholder, la reattività di fronte a critiche o azioni legali.
Come innescare un reale cambiamento di rotta? Ciascun cittadino può fare la sua parte, scegliendo con consapevolezza i modi per spendere e investire il proprio denaro. Ormai è sempre più vasto – e sempre più eterogeneo e alla portata di tutti – il mondo degli investimenti sostenibili, che integrano l’analisi delle performance con quelle di fattori ambientali, sociali e di governance (Esg). Il secondo pilastro della triade, quello della società, riguarda proprio il rapporto virtuoso dell’azienda con i lavoratori, il territorio, la comunità. E gli studi dimostrano che la sostenibilità è la scelta migliore per il Pianeta, per le persone e anche per le performance finanziarie.
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