La causa civile contro Eni è solo la punta dell’iceberg

L’accusa è quella di aver contribuito consapevolmente alla crisi climatica. Eni rigetta le accuse. La società è criticata anche per i nuovi giacimenti.

  • Greenpeace, ReCommon e 12 cittadini italiani hanno fatto causa a Eni per aver portare a galla le responsabilità sulla crisi climatica.
  • È la prima causa civile sul clima in Italia nei confronti di un’azienda.
  • Eni rigetta le accuse e risponde che valuterà a sua volta azioni legali contro i ricorrenti.
  • In vista dell’assemblea degli azionisti, Eni è stata anche criticata dopo l’annuncio di nuove esplorazioni fossili in Australia e per aver alimentato la crisi energetica in Pakistan.

La multinazionale Eni dovrà fronteggiare una causa civile in tribunale presentata da ReCommon, Greenpeace e 12 cittadini italiani che hanno subito le conseguenze della crisi climatica. Le organizzazioni che hanno annunciato l’azione legale chiedono che Eni sia condannata per i danni presenti e futuri, patrimoniali e non, legati ai cambiamenti climatici “a cui Eni sta significativamente contribuendo con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone consapevole”, scrivono le due associazioni in una nota stampa congiunta. Il procedimento è stato depositato presso il tribunale di Roma ed è stato intentato anche nei confronti del ministero dell’Economia e delle Finanze e di Cassa depositi e prestiti, in quanto azionisti di Eni in grado di esercitare “un’influenza dominante sulla società”.

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Nella foto, da sinistra, Simona Abbate e Felice Moramarco di Greenpeace Italia, Antonio Tricarico di ReCommon © Greenpeace/ReCommon

Le richieste di cittadini e associazioni

Le due associazioni e gli altri attori privati in questa causa non chiedono una quantificazione dei danni ma un accertamento delle responsabilità del colosso energetico italiano per i danni provocati in seguito alle sue attività legate a petrolio e gas. La campagna #LaGiustaCausa – così è stata battezzata la causa civile – chiede di condannare Eni affinché limiti il volume annuo aggregato di tutte le emissioni di gas serra (e in particolare di CO2) in atmosfera, in misura tale che le emissioni vengano ridotte di almeno il 45 per cento a fine 2030 rispetto ai livelli del 2020, e con un andamento in linea con gli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5 gradi.

Qualora Eni non rispetti tale obbligo, i ricorrenti chiedono una condanna al pagamento della somma che il giudice riterrà equa per violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Inoltre, Greenpeace, ReCommon e i singoli ricorrenti chiedono al giudice di condannare ministero e Cdp costringendo queste realtà ad adottare al più presto una policy che definisca gli obiettivi climatici da promuovere in Eni, il loro monitoraggio e guidi in tal senso la partecipazione futura delle istituzioni pubbliche nella società.

Cosa sono le climate litigation: il caso dei Paesi Bassi

Come detto, si tratta della prima causa civile sul clima contro una società di diritto privato in Italia. Ma non l’unica in Europa e nel mondo. L’azione legale di ReCommon e Greenpeace, infatti, si inserisce in quelle che vengono chiamate climate litigation, cioè azioni legali avviate con lo scopo di imporre a governi o aziende il rispetto di determinati standard in materia di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e di limitazione del riscaldamento globale.

A livello globale, il numero complessivo di azioni legali sul clima è più che raddoppiato dal 2015, portando il totale a oltre duemila, con un progressivo moltiplicarsi di cause presentate da cittadine e cittadini e da organizzazioni non governative che chiedono che vengano rispettati e messi in primo piano i diritti delle persone colpite dalla crisi climatica.

Emblematico in questo senso è il caso contro Shell, condotto nei Paesi Bassi da una coalizione di organizzazioni ambientaliste – Friends of the Earth, Greenpeace, ActionAid, Both Ends, Fossielvrij Nl, Jongeren Milieu Actief e Waddenvereniging – per conto di 17.379 cittadini. In quel caso, il tribunale ha ordinato alla multinazionale petrolifera di ridurre le proprie emissioni di gas serra del 45 per cento entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019, per essere in linea con i requisiti imposti dall’Accordo di Parigi sul clima. L’impianto accusatorio contro Eni è molto simile a quello olandese contro la Shell, fanno sapere gli avvocati che stanno seguendo la pratica per conto di Greenpeace e ReCommon.

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Una manifestazione contro Eni a Roma © Simona Granati/Corbis via Getty Images

Eni ha investito gli extra-profitti nei fossili

Azione legale a parte, sono giorni intensi per Eni che sta ricevendo critiche anche fuori dalle aule di tribunale. Il 10 maggio 2023, infatti, si è tenuta l’assemblea degli azionisti della multinazionale italiana. In vista dell’incontro, l’organizzazione Oil change international ha pubblicato il rapporto dal titolo Big oil reality check 2023: Eni da cui emerge che la strategia energetica della compagnia del petrolio e del gas appare fortemente disallineata rispetto agli sforzi globali per arginare la crisi climatica.

Come riportato nel report, nel 2022 Eni ha investito quindici volte di più nei segmenti industriali dominati dai combustibili fossili rispetto a Plenitude, l’azienda del “cane a sei zampe” – com’è chiamata Eni in virtù del suo logo – che integra la produzione di energia rinnovabile. Sempre Oil change international avverte che Eni si appresta a dare il via libera a nuove estrazioni di petrolio e gas.

Uno di questi progetti è quello dedicato all’esplorazione di gas nelle acque settentrionali dell’Australia. Si chiama Verus e che, se sfruttato, rischierebbe di diventare uno dei giacimenti di gas a più alta intensità di CO2 al mondo. A svelarlo è un altro rapporto, questa volta redatto dall’Institute for energy economics and financial analysis (Ieefa) e diffuso proprio in vista dell’incontro tra azionisti.

Eni è accusata di voler esplorare nuovi giacimenti di gas

Lo sfruttamento del giacimento australiano, destinato alla produzione di gnl (gas naturale liquido), secondo l’istituto americano impegnato nella transizione energetica Ieefa, non solo disattenderebbe le ambizioni dell’Australia di ridurre le emissioni nazionali di gas serra del 43 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005, ma anche con quelli di Eni di azzerare la CO2 entro il 2035 per tutte le emissioni generate dall’estrazione e dalla produzione di petrolio e gas.

Inoltre, Ieefa lancia un’altra pesante accusa: l’istituto afferma che gli azionisti retail (cioè privati) della società energetica hanno accolto le ambizioni di sostenibilità di Eni sottoscrivendo a gennaio 2 miliardi di euro in un’emissione obbligazionaria legata all’obiettivo di neutralità climatica. Ora quei fondi potrebbero essere utilizzati per lo sviluppo di Verus e per produrre milioni di tonnellate di CO2 all’anno: un’attività difficile da considerare sostenibile.

Eni respinge le accuse di Ieefa, sostenendo che è falso dire che l’emissione obbligazionaria di gennaio sia stata legata al finanziamento di progetti sul gas specifici e che le ambizioni climatiche di Eni saranno mantenute, grazie alle tecnologie di cattura e stoccaggio di CO2.

Il ruolo nella crisi energetica in Pakistan

Ciò non toglie che Eni ha previsto di aumentare l’estrazione di petrolio e gas del 3-4 per cento all’anno fino al 2026. Di nuovo secondo Oil change international, nel 2023 l’Eni potrebbe posizionarsi al terzo posto tra le aziende a livello globale per volume di nuove riserve di petrolio e gas approvate per lo sviluppo, dietro solo a QatarEnergy e Petrobras.

Inoltre, Eni deve anche rispondere alle accuse, di nuovo rivolte ancora una volta da ReCommon – contro la quale Eni ha detto che “si riserva di valutare le opportune azioni legali per tutelare la propria reputazione rispetto alle ripetute azioni diffamatorie messe in campo, a partire dal ruolo che l’associazione ha cercato di ritagliarsi nell’ambito della vicenda giudiziaria Opl245 terminata con la totale insussistenza delle accuse e danni reputazionali alla società e alle sue persone” – di essere responsabile della crisi energetica in Pakistan.

Su questo punto, ReCommon ha pubblicato un approfondimento per fare luce sul ruolo del colosso energetico dopo essersi aggiudicata la fornitura di gas naturale liquido verso il paese asiatico. La multinazionale italiana è accusata di aver dirottato altrove il gas destinato al Pakistan (si tratta di almeno otto consegne delle 20 concordate, quindi un terzo) per rivendere il combustibile su altri mercati (in particolare verso la Turchia) ottenendo così il massimo profitto da ogni carico e sfruttando il rialzo dei prezzi durante la crisi energetica dell’ultimo inverno. Una manovra che avrebbe fatto guadagnare a Eni almeno mezzo miliardo di dollari ma che avrebbe generato un serio problema di approvvigionamento energetico per il Pakistan.

Il governo di Islamabad ha annunciato un contenzioso verso Eni, ma ad oggi non è ancora accaduto. Gli accordi, che prevedono penali molto basse in caso di interruzione delle forniture e addirittura nessuna sanzione aggiuntiva in caso di inadempienza volontaria o reiterata, legano Pakistan e Eni a una fornitura di gas liquido per altri 9 anni. Intanto, i continui blackout in Pakistan hanno costretto numerose aziende a chiudere, lasciando migliaia di persone senza lavoro. Per arginare la crisi energetica, il ministro dell’Energia del paese ha annunciato l’intenzione di quadruplicare l’utilizzo del carbone: una mossa disperata per ridurre il prezzo dell’elettricità, che avrà gravi conseguenze sulla salute delle persone e sul clima.

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