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Come i cambiamenti climatici stanno trasformando lo sport, ma soprattutto il destino olimpico di molte atlete e atleti solo per la loro provenienza geografica.
Cosa ne sarà dell’Europa dopo Brexit? La scelta dei britannici mette fine a un periodo di stallo durato troppo tempo. Per Bruxelles è giunto il momento di rimettersi in marcia.
La maggior parte degli italiani, e forse anche degli europei, non si sarebbe aspettata un risveglio così movimentato in un tranquillo venerdì di fine giugno. Eppure, nonostante gli sforzi dei laburisti, di parte dei conservatori, persino del primo ministro David Cameron, con il referendum su Brexit i britannici – o forse in questo caso è più corretto dire “gli inglesi” – hanno scelto di abbandonare l’Unione europea (Ue).
Gli inglesi e non i britannici. Già perché, in realtà, Scozia e Irlanda del Nord hanno votato per “restare europei”, a differenza di Inghilterra e Galles. Il risultato finale, dunque, mostra un paese spaccato a metà sia nei dati che anagraficamente (i giovani volevano restare), sia geograficamente che politicamente. Ma questa è un’altra storia, tutta interna a un Regno, unito solo a parole.
#BrexitVote age breakdown (young w/Remain vs old supporting Leave) resembles age breakdown for Bernie-Hillary pic.twitter.com/obIOfCc940
— Lee Fang (@lhfang) 24 giugno 2016
La storia che interessa gli europei è un’altra. Le borse internazionali stanno reagendo alla notizia con il classico panico da incertezza. Le curve dei principali indici finanziari sembrano montagne russe impazzite e la sterlina ha perso parecchi punti sulle principali valute internazionali, quali euro e dollaro. Gli europei che studiano, lavorano o vivono oltremanica sono preoccupati perché non sanno quale potranno essere gli ostacoli burocratici dei prossimi anni. E l’incertezza e l’ansia, si sa, sono il primo vero nemico dello sviluppo di relazioni sane e durature.
Ma se solo si riuscisse a stare calmi (“keep calm” in questo caso, calza a pennello) e a guardare a questo evento storico con lungimiranza ci si accorgerebbe che l’apporto che il Regno Unito ha dato all’Unione europea era già parziale. La sua uscita non condizionerà né in positivo, né in negativo la ricerca di soluzioni su molte divergenze che vedono contrapposte, ad esempio, Francia e Germania in ambito economico. Il Regno Unito è l’unico paese ad aver giocato quattro opt-out, quattro rinunce ad altrettanti regolamenti adottati dall’Ue. Londra non ha aderito all’Unione economica e monetaria, non fa parte degli Accordi di Schengen, non ha aderito alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, né allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia. L’influenza di Londra in sede decisionale è sempre stata collaterale perché modellava le istituzioni lavorandole ai fianchi, in base alle proprie esigenze. Ciò che più mancherà all’Ue del Regno Unito è il suo peso, sia economico che storico, in ambito negoziale con attori esterni.
Il Regno Unito ora dovrà rinegoziare gli accordi che regolano i suoi rapporti con Bruxelles. È facile immaginare che resterà nello Spazio economico europeo che prevede la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali. Come scelto da Islanda e Svizzera che, pur non facendo parte dell’Ue, hanno anche sottoscritto gli Accordi di Schengen con Bruxelles per favorire ulteriormente la libera circolazione dei cittadini dei paesi che ne fanno parte. Già prima di Brexit, il Regno Unito non faceva parte di tale accordo. L’unica cosa a cui i britannici dovranno rinunciare nel periodo di transizione, pur continuando a rispettare i regolamenti europei, è la partecipazione al processo decisionale.
Fatta questa premessa: è possibile guardare all’uscita formale del Regno Unito dall’Unione come a una opportunità? La risposta è sì. Le istituzioni europee e i governi degli stati più convinti del fine ultimo del progetto – cominciato il 9 maggio 1950 – potrebbero approfittare di questo momento per riportare sul tavolo alcune questioni rimaste nel cassetto per troppo tempo.
Il pilastro politico potrebbe tornare a bilanciare quello economico e finanziario che ha dominato e sorretto, non senza scossoni, l’Unione negli ultimi decenni. Che sia giunta l’ora di tentare l’ultima carta per risollevare le sorti di un’organizzazione internazionale messa a dura prova dalla crisi economica del 2007 e dal populismo (non solo politico) dilagante? Che sia giunto il momento di dar vita ai tanto sognati Stati Uniti d’Europa? Francia, Germania, Italia e gli altri paesi fondatori potrebbero riprendere i negoziati, più che altro mossi dalla paura che altri membri, oltre al Regno Unito, possano cercare una via d’uscita. E veder sgretolate così le fondamenta che loro stessi hanno gettato per riportare pace e stabilità nel continente dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
L’Europa a più velocità – Unione europea, Zona euro, Area Schengen, Spazio economico europeo, senza considerare tutti gli opt-out – è stata un tentativo di mantenere insieme tutti i pezzi del continente, tutti gli attori che ora potrebbero tornare a correre insieme, finalmente. Il gruppo dei reduci potrebbe compattarsi e prepararsi alla volata finale. Ma ci vuole coraggio. I gregari che da sempre lavorano in sordina devono cercare di contenere le schegge impazzite, le voglie di coloro che sognano di staccarsi e vincere in volata. Il riferimento è ai Nigel Farage (leader del Partito per l’indipendenza del Regno Unito, Ukip) francesi o italiani (da Marine Le Pen a Matteo Salvini) elettrizzati da questo “successo” antieuropeista e disposti a tutto pur di cogliere l’opportunità di andare al potere che fino a pochi anni fa sembrava assurda anche solo immaginare.
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