Pochi chilometri sotto la superficie terrestre scorre un’abbondanza di calore continua, prevedibile, a basse emissioni. È un’idea che seduce: nessun tramonto da inseguire, nessuna bonaccia da temere, una fonte “di base” capace di erogare energia 24 ore su 24. Eppure, secondo i calcoli della divulgatrice ambientale Hannah Ritchie pubblicati sul sito Our World in Data, nel 2023 la geotermia ha generato appena lo 0,3 per cento dell’elettricità globale: circa 97 TWh su oltre 30mila prodotti nel mondo. Il paradosso è tutto qui: grande potenziale, impatto ancora marginale. Per capire perché, bisogna scendere gradualmente in profondità, prima nella fisica del calore, poi nella geologia, infine nella politica e nella finanza.
“Energia geotermica” non è una sola cosa. C’è il calore “poco profondo”, sfruttato con pompe di calore geotermiche: si lavora entro i primi metri di suolo, dove la temperatura resta stabile e consente di riscaldare d’inverno e raffrescare d’estate con ottime efficienze. Più in basso, a centinaia di metri, si attinge a serbatoi più caldi per teleriscaldamento o processi industriali. E poi c’è la geotermia elettrica, quella che trasforma il vapore in elettricità: qui servono temperature ben oltre i 100 gradi centigradi e profondità di chilometri, condizioni che la natura concede con parsimonia, di solito lungo i margini delle placche tettoniche. È per questo che, con le tecnologie attuali, non si può fare ovunque: l’abbondanza del calore terrestre non coincide con la sua accessibilità economica.
La geografia, infatti, detta la mappa dei campioni. Stati Uniti occidentali, Indonesia, Filippine, Messico, Turchia: aree dove la crosta è più “sottile” e il gradiente termico più generoso. InKenya – uno dei casi emblematici – la geotermia copre ormai quasi metà della produzione elettrica, un record che dimostra quanto questa fonte possa diventare spina dorsale dei sistemi elettrici quando la geologia aiuta e le politiche accompagnano.
Rischi a monte, costi a inizio vita, pochi incentivi
Se il kWh geotermico ha costi medi competitivi lungo l’intero ciclo di vita (Lcoe), è l’anticipo a frenare: la quasi totalità della spesa si concentra prima che l’impianto produca un solo watt. Si perfora, si testa, talvolta si fallisce: un rischio “esplorativo” che le banche prezzano caro e gli sviluppatori faticano a sopportare senza garanzie pubbliche. Diversamente da eolico e fotovoltaico, la geotermia non ha goduto di una vera curva d’apprendimento industriale: non si tratta di modulare linee produttive in fabbrica, ma di “estrarre” calore dal sottosuolo, progetto per progetto, sito per sito. Anche questo ha rallentato la discesa dei costi e, con essa, l’adozione.
A questi nodi economici si sommano le inerzie amministrative: i permessi per perforare possono richiedere anni, e il nesso – reale ma gestibile – tra iniezione di fluidi in profondità e sismicità indotta alza l’asticella delle cautele. Nessuno di questi fattori è insormontabile, ma nell’insieme costituiscono una barriera all’entrata che ha spinto governi e investitori, per vent’anni, verso tecnologie più “modulari” e scalabili. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: fotovoltaico ed eolico hanno corso, la geotermia è rimasta indietro.
La svolta tecnologica: la “next-gen” che allarga la mappa
La vera discontinuità è tecnologica e ha un nome: Egs, Enhanced geothermal systems. L’idea di fondo dell’Egs è semplice: la Terra è calda quasi ovunque, ma quel calore non è sempre accessibile. Servono tre condizioni: rocce molto calde, fratturate in modo da lasciar passare fluidi, e acqua naturalmente presente. Nella maggior parte delle aree del pianeta uno o più di questi elementi mancano. Qui entra in gioco l’Enhanced geothermal system.
Con l’Egs non ci si limita a “scoprire” un serbatoio naturale, lo si costruisce artificialmente. Si perfora in profondità – fino a 4-5 chilometri o più – dove le rocce raggiungono temperature superiori ai 150-200 gradi. Se la roccia non è naturalmente fratturata, viene “stimolata” con tecniche simili a quelle del fracking: piccoli impulsi di pressione che aprono microfratture, creando così un reticolo permeabile. In questo spazio artificiale si inietta acqua fredda, che circola nella roccia calda, si riscalda e torna in superficie come acqua bollente o vapore ad alta pressione. Quel vapore aziona le turbine, producendo elettricità.
La differenza rispetto alla geotermia convenzionale è radicale: non bisogna più cercare la combinazione perfetta di calore, permeabilità e acqua. Basta trovare il calore, e il resto lo fa la tecnologia. In teoria, questo significa espandere enormemente la geografia della geotermia, rendendola praticabile anche in aree non vulcaniche o lontane dai margini delle placche tettoniche.
Questa idea, figlia della stagione perforativa dello shale oil & gas, riusa competenze, macchine e supply chain dell’industria fossile. Negli Stati Uniti l’Egs è già uscita dai laboratori: come raccontato dal sito della Yale School of Environment dal giornalista Stephen Robert Miller, è il programma Forge del Dipartimento dell’Energia a fare da incubatore. Una generazione di imprese – tra cui Fervo Energy, Sage Geosystems, Xgs Energy, Eavor – sta portando sul campo impianti pilota e prime commesse commerciali. In Utah, Fervo sta perforando a oltre 4 chilometri per produrre due gigawatt a partire dal 2028, un ordine di grandezza da grande diga. Nel frattempo, aziende energivore come Google e, più di recente, Shell Energy hanno firmato contratti d’acquisto pluriennali per decine di megawatt, segnali che aiutano a sbloccare finanziamenti privati e ad abbassare il costo del capitale.
Politica e denaro: perché proprio gli Stati Uniti potrebbero fare da apripista
Il contesto statunitense offre una lezione inattesa. Pur in una fase politica ostile a eolico e solare, la geotermia ha trovato sponde nel campo repubblicano grazie a tre argomenti: è una fonte di base utile alla sicurezza energetica, riutilizza tecnologie e manodopera dell’oil&gas, porta investimenti in contee rurali e “red states”, cioè quelli a maggioranza repubblicana. La cornice fiscale dell’Inflation reduction act – vera leva per le tecnologie emergenti – era finita nel mirino del nuovo presidente Donald Trump. Ma nella legge di riconciliazione approvata il 4 luglio 2025 (il budget reconciliation votato al Congresso) i crediti d’imposta per la geotermia sono stati conservati fino al 2036: un’àncora di prevedibilità che, unita a proposte bipartisan per snellire autorizzazioni e permessi, potrebbe accelerare la maturazione industriale del settore, nonostante tagli e riposizionamenti su altre rinnovabili.
Il dato di partenza resta modesto – la geotermia copre lo 0,4 per cento dei consumi elettrici statunitensi e il Paese ha sfruttato meno dell’1 per cento del proprio potenziale tecnico – ma l’interesse di colossi dei servizi petroliferi (Halliburton, Baker Hughes, Slb) e di big tech in cerca di elettricità programmabile per i data center lascia intuire un percorso di scala che dieci anni fa sembrava fantascienza. In parallelo, il Dipartimento dell’Energia stima che la combinazione di Egs e riduzione dei costi possa portare, entro metà secolo, a ordini di grandezza in netto contrasto rispetto all’inerzia del passato. La partita, insomma, non è più tecnologica soltanto: è di finanza paziente, regole snelle, mercati di sbocco affidabili.
Naturalmente, la perforazione non è priva di rischi: come ha mostrato l’esperienza del fracking, l’iniezione di fluidi nel sottosuolo può in alcuni casi innescare fenomeni sismici. Un progetto Egs in Corea del Sud ha innescato un terremoto di notevole entità nel 2017 e il sito è stato immediatamente chiuso. La contaminazione e l’inquinamento delle falde acquifere sono invece rischi che non dovrebbero esistere, come spiega Hannah Ritchie, purché i progetti Egs siano ben gestiti. “Le trivellazioni avvengono in genere a profondità molto maggiori rispetto alle falde acquifere sotterranee e i fluidi utilizzati per la geotermia contengono molti meno additivi rispetto a quelli utilizzati per il fracking di petrolio e gas. È un rischio, ma gestibile”, scrive la dilgatrice nella sua newsletter Sustainability by numbers.
E in Italia?
In Italia, la regione che ha puntato di più in fatto di geotermia è sicuramente la Toscana, nella zona compresa tra i comuni di Larderello-Travale, Radicondoli e intorno al Monte Amiata, dove si trova la più grande centrale geotermica d’Europa e un numero significativo di impianti. L’Italia – come si legge sul sito della regione – è stata una nazione pionieristica nell’uso dell’energia geotermica: a Larderello, nel 1904, fu condotto il primo esperimento al mondo di produzione di elettricità dal calore del sottosuolo. Il primo impianto geotermoelettrico fu poi avviato nel 1913. Oggi, in Toscana, la potenza installata complessiva supera i 900 MW, confermando la regione come leader nazionale nel settore.
Sebbene l’Italia abbia un elevato potenziale geotermico, l’energia prodotta rappresenta una piccola frazione del mix energetico nazionale (meno del 2 per cento). Negli ultimi anni la quantità di energia geotermica prodotta e la potenza installata sono cresciuti, ma molto lentamente: tra il 2007 e il 2017 l’aumento complessivo della potenza installata è stato di appena il 10 per cento. Oltre alla Toscana, esistono risorse e impianti anche in Campania (Pozzuoli), Veneto (Padova), Sicilia (Sciacca, Alcamo, Isole Eolie e Pantelleria), Emilia-Romagna (Casaglia) e Friuli-Venezia Giulia.
Cosa serve per sbloccare la geotermia
La ricetta, suggeriscono i dati citati, è relativamente chiara. Primo: diminuire i rischieconomici dell’esplorazione con strumenti pubblici (garanzie, fondi rotativi, assicurazioni geologiche) che portino il costo del capitale su livelli compatibili con business plan pluridecennali. Secondo: semplificare i permessi senza derogare alla sicurezza sismica e ambientale, perché il tempo – non solo il costo – è la variabile che uccide i progetti. Terzo: creare domanda stabile con contratti d’acquisto di lungo periodo da parte di grandi consumatori e utility. Quarto: integrare filiere riusando il know-how dell’oil&gas per accelerare perforazioni profonde, materiali e logistica. Dove la geologia offre serbatoi naturali, queste leve portano capacità nuova in pochi anni; dove l’Egs è necessario, aprono la strada a un’industrializzazione che allarghi la mappa e faccia finalmente emergere una curva d’apprendimento.
Insomma, non c’è alcun “segreto” che spieghi perché la geotermia vale lo 0,3 per cento dell’elettricità globale: c’è piuttosto una somma di fattori – geologici, economici, regolatori – che ha messo in ombra una tecnologia dal profilo climatico e di sistema tra i più solidi. La novità è che oggi abbiamo strumenti per affrontarli: tecnologie che rendono accessibile il calore profondo anche lontano dai vulcani; politiche che, almeno in alcuni Paesi, iniziano a riconoscerne il valore di flessibilità e continuità; capitali pronti a entrare se il rischio viene condiviso e la domanda garantita. È così che il calore sotto i nostri piedi può smettere di essere una promessa e diventare, finalmente, una colonna portante della transizione energetica.
Le enormi riserve di combustibili naturali formatisi nel corso dell’evoluzione del nostro pianeta, sedimentate nelle profondità della crosta terrestre e lì conservate per milioni di anni, le stiamo bruciando tutte in un secolo. Petrolio, carbone e gas metano coprono oggi l’80% del fabbisogno energetico mondiale; un altro 6% circa è coperto da materiale fissile (essenzialmente
Trecentodieci megawatt di energia rinnovabile, accessibile, economica. È quanto le 365 turbine eoliche del Turkana Wind Power sono in grado di produrre da quando, lo scorso settembre, sono entrate in funzione e allacciate alla rete elettrica kenyota. Negli ultimi otto mesi, il parco eolico ha permesso di ridurre la spesa di quasi 70 milioni di
Casole d’Elsa e Radicondoli, il video su questo angolo di Toscana da tutelare mostra la bellezza del territorio e spiega perché è importante progetterlo.
Il Masso delle Fanciulle è un luogo incantato, entrato nel cuore di chi l’ha vissuto o incontrato sul suo cammino. Ecco perché merita di essere tutelato. Con il tuo voto.
Trattasi di montagne, sì, ma di fuoco, poiché si situano all’interno delle cosiddette aree geodinamiche della superficie terrestre, ovvero nei luoghi geologicamente più attivi del pianeta in cui possono più frequentemente verificarsi sia le eruzioni sia i terremoti. Ed è proprio quest’indole “irrequieta” ed effervescente a conferire ai vulcani quel fascino spettacolare e lievemente sinistro
Il 31 marzo si tiene a Roma un convegno sulla geotermia dal titolo Speciale geotermia. Il futuro a emissioni zero è già qui. L’intento dovrebbe essere quello di mettere a confronto attivisti per l’ambiente, imprenditori e politici su un argomento che riguarda il futuro di tutti: come fornire energia al nostro paese in modo sostenibile.
Sul sito www.tekneco.it è stata recentemente pubblicata un’intervista di Gianluigi Torchiani a Jacopo Fo. L’intervista si intitola “La moratoria sulla geotermia toscana è un colpo di coda della vecchia energia”. L’articolo merita un’analisi accurata, perché rappresenta un esempio di un modo di argomentare che arricchisce la casistica del Sole24Ore sul pensiero antiscientifico. In una discussione scientifica sarebbe utile