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Da cinque a due collezioni, “senza stagione”: Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, lancia una moda più vicina ai consumatori e all’ambiente, capace di rispondere alle esigenze post Covid-19.
Così parlò Alessandro Michele. E tutto il mondo (della moda) si fermò. Certo, il direttore creativo di Gucci non si è lanciato nella parabola della morte di Dio come nello scritto nietzschano, ma in quella della morte della moda, almeno così come l’abbiamo sempre conosciuta. Era ora, verrebbe da dire. E anziché profetizzare l’avvento dell’oltreuomo, ha predetto quello di “collezioni senza stagione”. Da cinque (due per l’uomo, due per la donna e una cruise) a due all’anno, idealmente presentate e ottobre e a marzo.
Il luogo è una delle tante piattaforme virtuali, dove Michele ha tenuto una conferenza stampa per esporre le sue riflessioni – lui li definisce appunti dal silenzio – scaturite da questi mesi di pausa. Ha messo a nudo le crepe che il fashion system ignorava ormai da anni, come il timing troppo serrato delle collezioni o il disallineamento tra ciò che si trova in negozio e la stagione, per poi raccontare come sarà la nuova Gucci.
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“Non sono un disertore, ma un cospiratore”, dice Michele, invocando subito dopo quel “di meno ma meglio” che tanto piace su carta, ma che fa tremare i polsi a chi dovrà chiudere i bilanci aziendali. La moda come è oggi non è più sostenibile, afferma il direttore creativo, che aggiunge di voler abbandonare “il rito stanco della stagionalità e degli show per riappropriarmi di una nuova scansione del tempo, più aderente al mio bisogno espressivo”. Ma non è una fuga in solitaria, quella di uno dei marchi più conosciuti al mondo, bensì è un invito a una riflessione collettiva, in cui il gruppo Kering si propone come apripista a un movimento che accarezza già le lande modaiole.
“Le nostre azioni spericolate hanno bruciato la casa in cui viviamo”, è ora di rallentare e di ripensare il sistema entro degli schemi più gentili nei confronti del Pianeta. “Ci incontreremo solo due volte l’anno, per condividere i capitoli di una nuova storia. Si tratterà di capitoli irregolari, impertinenti e profondamente liberi. Saranno scritti mescolando le regole e i generi. Si nutriranno di nuovi spazi, codici linguistici e piattaforme comunicative”.
Insomma, Michele annuncia una vera e propria rivoluzione, una sorta di ritorno alla purezza, che lambisce modi, tempi e luoghi. E anche i codici linguistici: “Mi piacerebbe abbandonare l’armamentario di sigle che hanno colonizzato il nostro mondo: cruise, pre-fall, spring-summer, fall-winter. Mi sembrano parole stranite e denutrite. Sigle di un discorso impersonale di cui abbiamo smarrito il senso”.
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È una bellissima dichiarazione d’intenti che segue le orme di altri due stilisti che, alla luce della crisi che stiamo vivendo, hanno invocato un ritorno a una moda più autentica: Giorgio Armani e Dries van Noten. Il primo nella sua ormai famosa lettera a Women’s wear daily, in cui da un lato ha denunciato il problema della sovrapproduzione di capi, dall’altro ha invitato a un rallentamento della macchina della moda così da rivalutare e valorizzare la filiera. Re Giorgio ha deciso anche di “disertare” le sfilate virtuali di luglio promosse dalla Camera della moda in favore di una presentazione a settembre, annunciando la volontà di riportare l’haute couture all’ombra della Madonnina.
Lo stilista belga invece ha detto basta alla frenesia della moda. Niente più sfilate che raccontino alla gente quello che troveranno nei negozi dopo mesi e mesi, bensì dopo poche settimane. I saldi non a metà ma a fine stagione. E poi meno collezioni e più qualità: “La pandemia ci ha fatto capire che stavamo percorrendo una strada sbagliata. Dobbiamo cambiare”. Ma lui è soltanto “il gladiatore” che ha chiamato a raccolta centinaia di addetti ai lavori – da New York a Parigi, Londra e Milano –, proponendo di firmare una lettera in cui si chiedono al sistema radicali cambiamenti. Una moda più vicina al consumatore, dunque, ma anche all’ambiente e alle nuove esigenze che il coronavirus ha imposto. Questa è l’epoca delle grandi dichiarazioni, arriverà anche quella dei fatti?
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