Si parla di vintage se un capo ha più di 20 anni, è definibile second hand invece è qualsiasi oggetto abbia già avuto un precedente proprietario.
Il filo resiliente delle sartorie ecosolidali. Tre casi di successo in Italia
Dalle sartorie alle cooperative, sono tante le realtà che nella moda sostenibile trovano vie per l’inclusione. Scopriamo tre storie.
- Acquistare abbigliamento con spirito critico non è affatto semplice. Vestito verde può aiutare.
- Nel quartiere milanese di Lambrate, il laboratorio Taivè aiuta giovani donne a ricominciare.
- A Palermo, un bene confiscato alla mafia si è trasformato in una sartoria sociale.
Consumare in modo critico in un settore come la moda può essere molto complesso. Dagli impatti ambientali dei processi di produzione allo sfruttamento dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo, l’industria tessile opera su diversi livelli, difficilmente tracciabili per chi vuole acquistare abbigliamento in modo responsabile.
Proprio dall’esigenza di voler scegliere alternative più sostenibili, è nato Vestito verde, una piattaforma con un database di migliaia di negozi di e-commerce e non. “Ero a liceo e dopo aver visto le immagini del documentario The true cost – spiega la fondatrice Francesca Boni – ho deciso che non avrei più comprato dalle catene che operavano con un modello di business improntato sul fast fashion”. Il docufilm diretto da Andrew Morgan si è interessato alla tematica dopo il crollo nel 2013 di una fabbrica tessile a Dhaka, in Bangladesh, che è costato la vita a oltre mille lavoratori.
La storia di Vestito verde
“Nel 2017 c’erano davvero poche opzioni, soprattutto in Italia. Allora ho pensato di creare una community su Facebook dove gli utenti potessero scambiarsi consigli e fare segnalazioni”. Poi, nel 2019, la nascita del sito con la mappatura di tutti i negozi di moda sostenibile, usato, vintage, cooperative e sartorie sociali che i membri della community segnalavano. “La mappa è integrabile a Google maps, così puoi averla a disposizione anche quando sei in giro – ci dice Francesca Boni via Zoom –. Non è la piattaforma che con autorità deve dirti cosa comprare, l’idea è invece di incentivare uno spirito critico in modo che la community possa crescere insieme all’insegna della consapevolezza”.
Data la complessità della filiera, valutare il reale impegno delle aziende è un lavoro che richiede tempo alla founder bolognese. “I brand che selezioniamo sulla piattaforma comunicano con una trasparenza radicale: inseriscono nel questionario informazioni su dove producono, chi ci lavora e da dove provengono i tessuti”. Dopo pochi anni di attività, la mappa ha già raggiunto 1,5 milioni di visualizzazioni e ora Vestito verde sta lavorando a un progetto con una ventina di brand per dare la possibilità di acquistare direttamente dal sito.
Taivè: il filo dell’emancipazione femminile
Senza sostenibilità sociale non ci può essere quella ambientale. Scorrendo tra le tendine della mappa di Vestivo Verde ci si imbatte nella casella “Sartorie sociali e cooperative”. Tra le 25 che il database ci suggerisce, appare il laboratorio Taivè, una piccola sartoria nel quartiere di Lambrate a Milano che dal 2009 accoglie giovani donne in cerca di rifugio. Dall’inizio dell’avventura, il progetto della Caritas ambrosiana ha formato circa una quarantina di donne – la maggior parte delle quali sotto i trent’anni – provenienti da 14 nazioni diverse, fra cui Romania, Kosovo, Macedonia e Nigeria, oltre all’Italia.
“Taivè significa ‘filo’ in lingua romanì – dice Maria Squillaci, responsabile del laboratorio –. Il filo dell’integrazione e dell’emancipazione delle donne attraverso il lavoro. Questa bottega rappresenta una microcomunità che inizialmente accoglieva solo giovani rom di diverse nazionalità, poi ci siamo aperti ad altri tipi di fragilità”.
Miriam è una giovane ragazza nigeriana vittima di tratta. Lavora al laboratorio Taivè da due anni e, secondo la maestra di bottega Maria Luisa, sta facendo grandi progressi. “In Nigeria lavorava senza cartamodello, ma mentalmente ha già una predisposizione per fare la sarta”, ci dice Maria Luisa, che ha un ruolo anche di educatrice. “Spesso le difficoltà di comunicazione, dovute alle diverse lingue parlate, sono uno stimolo ancora più forte per conoscersi”.
Miriam e le altre ragazze creano borse e accessori originali da scarti che arrivano da donazioni. “A Milano durante la pandemia sono venute a mancare tantissime sarte anziane e ci sono arrivati tessuti e campionari di tapezzeria – spiega Maria Squillaci –. Quando abbiamo introdotto la sostenibilità nel percorso formativo delle donne, questo ha fatto la differenza. Le ragazze sono sempre più motivate a confezionare prodotti sempre più belli”.
Un’altra assidua donatrice del laboratorio è la leggendaria “signora degli ombrelli”, chiamata così perché recupera gli ombrelli rotti per le strade di Milano, portando poi questo tessuto di plastiche a Taivè che lo riutilizza per confezioni di pacchi regalo e borse per la spesa.
Il bene confiscato alla mafia e divenuto Sartoria sociale
Dal quartiere di Lambrate nel milanese, ci spostiamo più a sud, direzione Sicilia. Più precisamente a Palermo, dove un bene confiscato alla mafia è stato affidato alla cooperativa sociale Al revés che ha lanciato il suo progetto di Sartoria sociale. “Il bene ci è stato affidato nel 2017 per una decina di anni. Lavoriamo con sarte esperte, assistenti sociali ed educatori – dice Rossella Failla, referente per la comunicazione della sartoria – per aiutare persone svantaggiate ad inserirsi nel mondo del lavoro attraverso le attività manuali e creative”. il progetto coinvolge migranti, ragazze madri, persone con problemi penali e di salute mentale; sia nella produzione di manufatti tessili provenienti da scarti sia nella rigenerazione di abiti usati e vintage.
“L’idea è nata da un mio viaggio in Africa – spiega Rosalba Romano, socia fondatrice della Sartoria sociale –, dove ho visto molte persone che avevano competenze nel cucire. Volevo creare uno spazio lavorativo per i tanti migranti che venivano in Italia riciclando e riutilizzando scarti tessili. Un amico professore di fashion design mi consigliò di destrutturare completamente i capi e reinventare partendo dal materiale riciclato. “Le ragazze e i ragazzi che vengono dall’Africa hanno spesso competenze nel cucito, ma hanno metodi diversi. Si trovano benissimo con vecchissime macchine da cucire che ci hanno regalato”, aggiunge Romano sorridendo.
Sartoria sociale, però, non è solo un negozio. Ape e filo è una sartoria itinerante che porta i propri lavori nei quartieri più svantaggiati di Palermo per svolgere attività educative e di sensibilizzazione. “La sostenibilità è ancora un tema per privilegiati: non tutti hanno accesso a queste informazioni”, spiega Rossella Failla.
“Abbiamo anche un laboratorio di cucito dentro il carcere Pagliarelli di Palermo, dove proponiamo attività rivolte alle detenute – aggiunge Failla –. Ci sono degli studi che dimostrano come dare la possibilità di imparare un lavoro riduca il tasso di recidiva una volta usciti dal carcere”.
Senza sostenibilità sociale, non ci può essere quella ambientale. Queste storie dimostrano come ambiente e diritti camminino fianco a fianco verso una transizione che ha il dovere di includere tutte e tutti.
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