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Come i cambiamenti climatici stanno trasformando lo sport, ma soprattutto il destino olimpico di molte atlete e atleti solo per la loro provenienza geografica.
La lenta e inarrestabile opera della Cina per annientare Il Tibet, patria del Dalai Lama, e il suo retaggio culturale con un’opera di “cinesizzazione”.
Non è una guerra. Non è un’invasione. Forse
nemmeno “pulizia etnica”. Il rapporto tra la Cina e il Tibet si
può forse chiamare così…
…”Lenta cinesizzazione”.
La storia
comincia nel II dopoguerra. Invitano a Pechino il giovane
consigliere spirituale del Dalai Lama, il Panchen Lama. Non fa
più ritorno in Tibet.
Anche il Dalai Lama, alle prime avvisaglie d’invasione, alle prime
incursioni dell’esercito maoista, va nella capitale cinese, un
viaggio di due mesi tra animali da soma, jeep. E vien ricevuto da
Mao TseTung tra gli onori, gli fanno visitare la città
sacra, lo trattengono…
…per così tanto tempo che i suoi sudditi in Tibet
cominciano a disperarsi, a piangere. Pensano: “l’hanno ucciso”!
Invece ci torna, in patria. Ma, contrariamente all’andata in pompa
magna, fa ritorno a bordo di un’umile vetturetta, senza scorta:
un’inezia, direte voi. Invece è parte di un sottile disegno
per screditarlo agli occhi dei suoi conterranei.
E non è da solo. Arriva un lento sciame di soldati.
1951. Il giovanissimo Dalai Lama è
quindicenne.
Truppe cinesi occupano le province a est
del Tibet Amdo e Kham – agli appelli alle Nazioni Unite, all’lndia,
agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna nessuno risponde – le
artiglierie cinesi bombardano i monasteri.
Perché? Forse per motivi militari (nel ’62 dal Tibet la Cina
lancia un attacco contro le frontiere dell’lndia e installa basi
missilistiche nucleari).
Forse per un’espansionismo ideale. La grande famiglia.
Comincia un’opera di azzeramento della civiltà e della
religione: costruiscono strade per la Cina – templi e monasteri
vengono sconsacrati e diventano stalle, granai – monaci e lama
vengono spogliati della tonaca e li mettono a lavorare nei macelli
(sono vegetariani).
Alcuni combattenti tibetani si addestrano in campi della CIA;
qualche rivolta, tra il ’54 e il ’59. Sangue per strada.
L’esilio.
Nel marzo 1959 si sparge la
notizia che i cinesi vogliono rapire il Dalai Lama! Una folla si
raduna nel Parco del Norbulinka (dove viveva) lo vogliono
proteggere. Ecco i suoi ricordi di quel momento: “lo mi sentivo al
centro di due vulcani entrambi pronti ad eruttare ad ogni momento.
E mio dovere più urgente era evitare uno scontro fra il mio
popolo disarmato e l’esercito cinese”. Il 17 marzo 59 il Dalai Lama
si traveste e fugge, e dopo un durissimo viaggio di settimane
arriva in India.
La sua casa. Il parco, il Tibet, non li vedrà
più.
Monasteri rasi al suolo – il Potala bombardato – almeno 12.000
persone uccise, altrettante deportate – avere una foto del Dalai
Lama è vietato. A scuola, lingua cinese, corsi di maoismo.
Adulti in campi di lavoro forzati. Scompaiono 1,3 milioni di
persone, scompaiono tesori architettonici e artistici della
nazione, scompaiono i monaci, tranne chi sopravvive nei campi di
prigionia o che fugge all’estero.
Alla morte di Mao nel 1976.
I cinesi
riconoscono ufficialmente “che erano stati compiuti degli errori”;
Deng Xiaoping fa ricostruire qualche monastero e… porta una
certa tolleranza?
Sì? – No.
Tumulti anti-cinesi nel 1987, e nell’estate del 1989 per oltre un
anno, legge marziale.
La cinesizzazione forzata del paese prosegue, prosegue, con
immigrazioni di massa. Sembra che alle donne tibetane vengano
imposti contraccezione e aborti. La capitale Lhasa ha più
residenti cinesi che tibetani. Le tipiche case tibetane, adatte al
clima dell’altopiano, son sostituite da scatoloni di cemento in
stile cinese: torride d’estate, gelide d’inverno.
Questa è
la foto oggi del Tibet, la culla della
spiritualità mondiale.
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