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Sono ancora tanti gli investitori che, di fronte al profitto, chiudono un occhio sulle questioni etiche. E continuano a puntare sui produttori di tabacco.
Non sono bastate le legislazioni anti-fumo, che negli ultimi anni sono diventate sempre più severe in quasi tutti i Paesi del mondo. Non è bastata la sempre maggiore attenzione all’etica negli investimenti. Non sono bastate le campagne di sensibilizzazione che si susseguono da anni su scala globale. Evidentemente, tutto questo non è ancora abbastanza. Gli investitori, soprattutto in Europa, continuano imperterriti a puntare sull’industria del tabacco. La denuncia arriva da un’analisi di Reuters.
Sono passati ormai 18 mesi da marzo 2015, quando la Global Taskforce for Tobacco Free Portfolios (Task force globale per gli investimenti liberi dal tabacco) ha iniziato a pungolare gli istituti finanziari e i fondi pensione, con il supporto dell’Unione Internazionale per il Controllo del Cancro. Il messaggio è semplice: non è più accettabile che nel mondo si investano ancora 60 miliardi di dollari in aziende come Philip Morris International, British American Tobacco, Japan Tobacco e Imperial Brands.
La campagna ha raccolto un’adesione eccellente a maggio di quest’anno. Si tratta di Axa, che, nelle sue vesti di colosso assicurativo, ha dichiarato di non poter più giustificare gli investimenti in qualcosa che abbia un impatto così “tragico” sulla salute umana. Al momento dell’annuncio, Axa deteneva 200 milioni di euro in azioni legate al tabacco e 1,6 miliardi di euro in bond emessi dalle big delle sigarette. Le prime sono state vendute quasi tutte, mentre per i secondi bisognerà attendere almeno fino al 2027. Axa è stato il primo grande investitore ad aderire in Europa. E, per ora, anche l’unico.
Anche dagli Stati Uniti arrivano segnali contrastanti. Un importante fondo pensione californiano, per esempio, aveva deciso ben 16 anni fa di vietare gli investimenti nel tabacco, ma ora potrebbe ripensarci. La ragione è un’analisi secondo la quale tale scelta gli è costata fra i 2 e i 3 miliardi in termini di ritorni.
Il dibattito sul futuro del mercato del tabacco, al di là delle giuste considerazioni etiche, è acceso. Ad oggi, nel mondo sono circa un miliardo i fumatori e circa 5.600 i miliardi di sigarette vendute ogni anno. Se nei Paesi occidentali tendenzialmente si smette di fumare, il trend è compensato dai Paesi in via di sviluppo, in cui crescono popolazione e reddito. E in cui, mediamente, si fuma di più.
Per giunta, le aziende sono sempre pronte ad aumentare i prezzi per salvaguardare i propri margini di profitto. Oppure a scongiurare i danni legali scorporando la divisione che opera negli Stati Uniti, dove c’è una lunga storia di maxi-cause contro di loro. Insomma, in un modo o nell’altro, per il momento, i loro guadagni sembrano reggere. Nel periodo 2005-2015, che ha incluso anche la crisi finanziaria globale, il MSCI World Tobacco Index (costituito da Philip Morris, British American Tobacco e altre) ha guadagnato il 10,4 per cento. Ben di più rispetto al +2,64 per cento del MSCI World Index, un indice di mercato che raggruppa imprese di molteplici tipologie.
Stiamo parlando, però, del presente. Il futuro è ancora tutto da scrivere e potrebbe rivelarsi molto diverso. Sono circa 180 infatti i Paesi che hanno siglato la Convenzione-Quadro per il Controllo del Tabacco dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E che in questo modo si sono impegnati a lavorare per ridurre il consumo di tabacco del 30 per cento entro il 2025, aggiornando le normative e aumentando le tasse. Misure che, nei prossimi anni, verosimilmente faranno calare in modo drastico il valore delle azioni delle big del tabacco.
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