Popoli indigeni

Canada, il gasdotto GasLink minaccia il territorio dei nativi americani

Dopo i sioux nel Dakota, in Canada un gruppo di nativi americani si oppone alla costruzione di un nuovo gasdotto nello stato della Columbia Britannica. Loro sono i wet’suwet’en e la pipeline oggetto della protesta si chiama GasLink: un gasdotto lungo circa 670 chilometri che dovrebbe passare in un’area incontaminata all’interno della riserva gestita dalle popolazioni indigene canadesi,

Dopo i sioux nel Dakota, in Canada un gruppo di nativi americani si oppone alla costruzione di un nuovo gasdotto nello stato della Columbia Britannica. Loro sono i wet’suwet’en e la pipeline oggetto della protesta si chiama GasLink: un gasdotto lungo circa 670 chilometri che dovrebbe passare in un’area incontaminata all’interno della riserva gestita dalle popolazioni indigene canadesi, alle quali il governo non ha mai riconosciuto il diritto di proprietà.

Manifestante contro la costruzione di un gasdotto in Nord Dakota nella riserva Sioux
In Canada vivono oltre 600 popoli di nativi americani © Justin Sullivan/Getty Images

Spiegamento di forze

Eppure i wet’suwet abitano un territorio che si estende su 22mila chilometri quadrati e il gasdotto, che si pone l’obiettivo di trasportare il gas naturale estratto a Dawson Creek fino alla città costiera di Kitimat, dovrebbe attraversare un terzo di quest’area. Contro questo progetto da 4,8 miliardi di dollari, il popolo wet’suwet’en ha iniziato a manifestare nel 2018, quando a dicembre un gruppo di manifestanti organizzò un presidio nell’area attraversata dal gasdotto. Il presidio, che rioccupava una vecchia postazione chiamata Unist’ot’en Camp (originariamente fondato nel 2009, primo di una costellazione di rivolte indigene contro i gasdotti fossili in Nord America, tra cui Keystone XL, Trans Mountain, Dakota Access e Bayou Bridge), è stato smantellato grazie a uno spiegamento di forze senza precedenti, duramente criticato dalle comunità locali. In particolare, la Royal Canadian Mounted Police (Rcmp), la polizia federale, che ha dispiegato decine di camionette e persino un elicottero. Gli indigeni hanno dichiarato che l’intervento ha costituito un vero e proprio “atto di guerra”.

Dopo quelle proteste, che hanno portato all’arresto di 14 manifestanti, il quotidiano britannico The Guardian ha indagato sui metodi utilizzati dalla Rcmp, svelando come le forze dell’ordine abbiano ricevuto l’ordine di usare le armi, in caso di necessità. Non solo: la Rcmp era stata autorizzata anche ad arrestare anziani e bambini. E l’area della protesta era stata chiusa ai giornalisti. La Rcmp, in assetto militare con tanto di fucili semi-automatici, aveva insomma la massima libertà di sparare e uccidere. Un atto grave, che per fortuna non ha prodotto vittime: i leader dell’Unist’ot’en Camp hanno invitato i propri attivisti a protestare pacificamente.

Un odio antico

“La Rcmp è stata creata dal governo federale per diseredare noi indigeni dalle nostre terre ancestrali”, ha commentato Freda Huson, portavoce del presidio. Freda si riferisce a un fatto storico: la Rcmp è stata creata a fine Ottocento proprio con l’obiettivo di guidare il trasferimento forzato delle popolazioni indigene nelle riserve. Trasferimento che ha portato alla sottrazione di minori e al loro affidamento ad altre famiglie. Un orrore riconosciuto dalla ministra responsabile dei servizi indigeni Jane Philpott la quale, nel 2017, ha ammesso che la rimozione forzata ha riguardato almeno 150 mila bambini, arrivando addirittura a parlare di “crisi umanitaria” per quanto riguarda il programma di assistenza e inclusione sociale.

Per Freda e altri nativi, quindi, la Rcmp è stata la forza di polizia che in pratica ha consentito al governo canadese di impadronirsi delle loro terre indigene e minare la sovranità dei nativi. Una battaglia che è andata avanti per molti anni, fino a quando, nel 1997, la Corte Suprema canadese ha riconosciuto che i wet’suwet’en non hanno mai acconsentito alla cessione della loro area, che misura appunto 22mila chilometri quadrati. Il gasdotto oggetto delle attuali proteste passerebbe direttamente sotto il fiume Morice, un sistema fluviale dal quale dipendono diversi comuni. Per questo i wet’suwet’en si sentono in diritto di contrastarne il passaggio.

keystone xl tubi
Tubature usate per costruire l’oleodotto Keystone XL tra Stati Uniti e Canada, un altro gasdotto contestato dai nativi locali © Andrew Burton/Getty Images

Le proteste continuano

Il governo canadese, nonostante si consideri conciliante con le popolazioni indigene, ha emanato una serie di leggi controverse: una di queste è la norma sull’antiterrorismo del 2015, il bill C-51, col quale gli ambientalisti, specie se indigeni, vengono criminalizzati. E con il quale sono state potenziate le misure di sorveglianza e le restrizioni legislative in caso di qualsivoglia “interferenza con l’integrità territoriale”. I difensori della terra come Freda Huson sono stati identificati nei rapporti dell’intelligence come “estremisti aborigeni”.

Nonostante tutto questo, gli attivisti continuano a presidiare l’area e a organizzare manifestazioni di protesta. Le ultime, in ordine cronologico, si sono tenute nel corso del mese di febbraio, dopo che la Rcmp è intervenuta – di nuovo con elicotteri, mezzi pesanti e cani, impedendo di nuovo l’accesso ai giornalisti – arrivando ad arrestare sette persone, tra cui Freda Huson. L’imponente operazione delle forze dell’ordine ha suscitato contestazioni nell’Ontario, a Vancouver, dove gruppi di attivisti hanno bloccato le linee ferroviarie e i porti in segno di solidarietà ai wet’suwet’en.

L’accordo finale

Nonostante l’ondata di arresti – almeno 38 – le proteste sono proseguite fino ai primi di marzo, quando, dopo tre giorni e tre notti di trattative, i capi ereditari wet’suwet’en hanno ricevuto una proposta di accordo con i funzionari della Columbia Britannica. Secondo questi ultimi sarebbero stati fatti importanti passi in avanti, “onorando i protocolli dei wet’suwet’en e della loro gente”, ma i nativi devono ancora esprimersi in merito.

I sostenitori del GasLink sbandierano sul proprio sito il fatto di aver già ottenuto degli accordi con 20 popolazioni indigene (che in Canada vengono chiamate First Nation communities). I capi ereditari dei wet’suwet’en sono gli unici a opporsi: questa spaccatura all’interno del movimento dei nativi potrebbe portare a un accoglimento finale del gasdotto? Serve ancora del tempo per rispondere a questa domanda. Ma intanto i blocchi commerciali sono stati rimossi e la GasLink, che il 14 febbraio 2020 ha dichiarato di essere arrivata al 46 per cento di realizzazione del progetto, ha ripreso i lavori del gasdotto.

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