Opinione

Perché il naufragio di Crotone non è stato un incidente

La tragedia di Crotone poteva essere evitata. Un’operazione di repressione, e non di salvataggio, ha causato 66 morti.

A bordo dell’imbarcazione partita da Smirne, in Turchia, che è affondata a 150 metri dalla costa di Cutro, in provincia di Crotone, viaggiavano (si presume) 180 persone provenienti principalmente da Afghanistan, Siria, Iraq e Pakistan.

A oggi, il bilancio è di 67 persone morte durante il naufragio, di cui 14 bambini. Un cadavere è stato ritrovato a Catanzaro per via delle forti correnti. Non ci sono casi di ustioni tra i sopravvissuti, il che escluderebbe un’esplosione. Con tutta probabilità, l’imbarcazione ha colpito uno scoglio.

Non si tratta però di un incidente: la tragedia accaduta nella notte tra sabato 24 e domenica 25 febbraio poteva essere evitata.

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Presidio di solidarietà a Cutro, Crotone © Alfonso Di Vincenzo/KONTROLAB/LightRocket via Getty Images

A Crotone, il cinismo del ministro dell’Interno

“Se fossi disperato, non partirei. Perché sono stato educato alla responsabilità, a non chiedermi cosa devo aspettarmi dal Paese in cui vivo, ma a cosa posso dare io”, così ha risposto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a chi, durante la conferenza stampa organizzata il giorno successivo la strage, gli ha chiesto di mettersi nei panni dei migranti su quella barca.

Parole agghiaccianti che Riccardo Noury di Amnesty International ha giudicato “ciniche”. Eppure, quelle persone potevano oggettivamente essere salvate e c’è un’indagine in corso della procura di Crotone per chiarire le dinamiche della vicenda e appurare eventuali responsabilità. Nel frattempo, si può dire che questo tipo di approccio repressivo sia una concausa di questo incidente, o che perlomeno non aiuti a salvaguardare le vite umane che cercano rifugio in un altro paese.

Detto questo, l’idea che le persone in fuga dalla guerra non debbano scappare dal proprio paese per senso di responsabilità è assurda, come dimostra – se ce ne fosse il bisogno e senza scomodare gli ebrei perseguitati dai nazisti – la rete di accoglienza a livello globale che si è venuta a costruire in conseguenza all’invasione dell’Ucraina.

Cosa è successo prima della strage di Crotone

Se i fatti così come ricostruiti da diversi giornali – uno dei primi a lavorare sulla ricostruzione dei fatti è stato il giornalista Sergio Scandura di Radio Radicale – fossero accertati, le responsabilità delle istituzioni sarebbero molto gravi. Ma andiamo con ordine: alle 4:57 di sabato 25 febbraio, quindi 24 ore circa prima del naufragio, una stazione radio italiana riceve un may-day da una barca in difficoltà nel mare Ionio.

Si tratta di un allarme senza coordinate, così a tutte le imbarcazioni nei paraggi viene chiesto di tenere alta l’attenzione. Poi la sera del sabato, un aereo di Frontex, agenzia preposta al pattugliamento del mar Mediterraneo, avvista il barcone e lo fotografa. Il rapporto viene inviato alla base italiana dell’agenzia: attraverso il monitoraggio satellitare è possibile rilevare la presenza di una “significativa risposta termica”. Insomma, viene appurato che quella barca è stracolma di persone, prive di giubbotto di salvataggio e quindi senza alcuna protezione.

La domanda a questo punto diventa cruciale: perché non sono partiti i soccorsi, nonostante l’allarme? Le indagini in corso dovranno appurare chi ha deciso di non far partire le motovedette inaffondabili della Guardia costiera, quelle capaci di raddrizzarsi in mare in qualunque situazione, bensì due mezzi della Guardia di finanza. Cioè, qualcuno ha deciso di intraprendere un’azione di repressione invece che di salvataggio: l’obiettivo era diventato arrestare gli scafisti e non salvare i migranti.

Le due vedette della finanza non riescono a raggiungere l’imbarcazione a causa delle condizioni avverse del mare. Passano le ore e la Guardia costiera non riceve più alcuna segnalazione dall’imbarcazione, eppure l’equipaggio aveva provato ad attirare l’attenzione la sera prima con le luci dei cellulari e gridando “Help!”. Nel corso della mattinata verrà chiesto a un pescatore di andare a controllare la situazione. Quando sul posto arriveranno le forze dell’ordine, alle 4:30 delle domenica mattina, in mare è già accaduto il peggio: i naufraghi sono caduti in acqua, alcuni sono vivi, molti altri invece no.

Se la Guardia costiera italiana avesse lanciato un’operazione di ricerca e soccorso (Sar), si sarebbe messa in moto una catena di salvataggi aerei e navali. Invece un’operazione di law enforcement, come quella andata in scena sabato notte, è stata un’operazione di polizia. Con il risultato che conosciamo tutti.

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I resti del naufragio di Cutro, Crotone © Alfonso Di Vincenzo/KONTROLAB/LightRocket via Getty Images

Fermare le partenze e salvare vite: una cosa non esclude l’altra

Questi sono i fatti, per quanto ne sappiamo finora. Capire chi è stato a ordinare una scelta repressiva invece che una di salvataggio sarà compito della giustizia ma su questo bisognerà tenere alta l’attenzione. Per il momento, l’unica cosa che possiamo fare è riflettere su quanto accaduto. Perché il ragionamento fatto dal ministro – ragionamento adottato anche dai governi precedenti – è che fermare le partenze sia l’unico modo per arginare il problema, osteggiando il salvataggio di vite in mare. Ma una cosa non esclude l’altra.

Vogliamo fermare le partenze? Allora possiamo iniziare a smettere di finanziare le milizie armate e i trafficanti di esseri umani. Già, perché in Libia, per esempio, finanziamo la cosiddetta guardia costiera libica: numerose inchieste sia giornalistiche che giudiziarie hanno dimostrato che quelle stesse persone pagate per fermare le partenze dalle coste nordafricane in realtà gestiscono il traffico umano lungo il Mediterraneo attraverso torture e centri simili a lager. E la stessa cosa si sta facendo sulla costa orientale, dove il governo repressivo della Turchia viene finanziato con fondi europei perché blocchi gli ingressi a est. Ma è proprio dalla Turchia che provenivano i migranti coinvolti nella tragedia in questione.

I corridori umanitari danno diritto ad almeno 1.200 accoglienze

Molte cose in più si possono fare sul fronte dei salvataggi: la costituzione e le leggi internazionali ci impongono di permettere a chiunque di chiedere asilo politico in Italia. Non tutte le persone che vogliono entrare nel nostro paese potranno ottenere lo status di rifugiato, è vero, ma quantomeno hanno il diritto di chiederlo. Tra l’altro, se regolarizzati, gli ingressi possono anche essere maggiormente controllati. Come le persone hanno il diritto di fare richiesta di asilo, lo stato ha il diritto di controllare tale richiesta. È un’operazione win-win, dove tutti hanno da guadagnare.

Per fare questo, è necessario aprire percorsi regolari, corridoi umanitari: una delle molte ragioni per cui queste persone salgono su una barca, spendendo fino a 7, 8mila euro per mettere a rischio la propria vita e quella dei loro familiari, è che non esistono metodi legali per arrivare in Italia. O meglio, esistono ma non vengono rispettati.

Infatti, come detto, tra le persone su quella barca c’erano diversi cittadini afghani, pakistani, iracheni. Nel 2021 diversi soggetti istituzionali e associativi hanno firmato un protocollo per accogliere chi scappa da questa regione. Tali soggetti, tra cui figurano Comunità di Sant’Egidio, Conferenza Episcopale Italiana, Tavola Valdese, Federazione Chiese evangeliche, Arci, Unhcr, Iom, Inm, hanno dato la loro disponibilità ad accogliere 800 migranti, mentre Ministero dell’Interno e Ministero degli Esteri ne avrebbero presi in carico altri 400, secondo il protocollo, quindi 1.200 persone complessivamente.

A oggi Piantedosi ha rivendicato con orgoglio di aver permesso l’ingresso di 617 persone. Poche, considerando il numero di rifugiati ucraini accolti dall’inizio della guerra: 173mila. Spiace contrapporre migranti via mare e migranti ucraini, siamo d’accordo, però è un paragone che rende l’idea degli approcci diversi, ma che soprattutto contraddice l’invito di Piantedosi fatto ad alcuni migranti e non ad altri di non scappare dal proprio paese.

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Le bare delle vittime del naufragio disposte nel palasport di Crotone © Alfonso Di Vincenzo/KONTROLAB/LightRocket via Getty Images

Ripartire dai sopravvissuti ed evitare nuove stragi

Mentre aspettiamo che lo stato lavori alacremente per mettere in piedi un sistema legale e sicuro che sappia accogliere i migranti ed evitare stragi come quella appena accaduta, i naufraghi in mare vanno salvati. Non ci sono alternative. E se il governo non si fida delle ong, che lo facciano le istituzioni preposte. Ma che lo facciano davvero.

Ora nei Cara (Centri accoglienza richiedenti asilo) ci sono circa 60 sopravvissuti ai quali le ong (di nuovo loro) stanno dando supporto psicologico. Sono quasi tutti afgani. 22 persone sono invece in ospedale tra cui sei bambini. Ecco, se lo stato vuole dimostrare di aver capito la lezione, può ripartire da loro. Facendo giustizia, trovando i responsabili di quanto accaduto in Calabria, e facendo in modo che una tragedia del genere non si ripeta mai più.

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