Lutto ed empatia, anche le orche elaborano la morte

Ce lo ha ricordato l’orca Tahlequah che, come già accaduto nel 2018, ha perso un cucciolo e ne culla tristemente il corpo, prima di lasciarlo andare.

Non importa a quale specie si appartenga, la perdita di un conspecifico caro è un’esperienza universale. Questo è particolarmente vero se si è mammiferi prosociali che vivono in società complesse e organizzate, come gli esseri umani, o le orche.

Siamo ossessionati dalla ricerca di ciò che ci rende umani (“Ma perché? – si chiede Carl Safina nel libro Al di là delle parole – Basta grattare un po’ la superficie di quell’ossessione, e dare un’annusatina, per avvertire una zaffata di qualcosa che potrebbe star bene in quello spazio bianco: la nostra insicurezza”), ma è ormai evidente che l’empatia e altre emozioni complesse non siano una prerogativa della nostra specie, veniamo, d’altronde, tutti dallo stesso albero (evolutivo).

orche
Le orche vivono in società matrilineari, in cui l’unità di base è costituita da una femmina più anziana con la sua discendenza. Un pod è un gruppo costituito da più famiglie imparentate © iStock

Frans de Waal, per tutta la sua carriera, ha posto l’accento sulla continuità dell’evoluzione. L’evoluzione, ha scritto il primatologo olandese nell’Età dell’empatia, ha “prodotto il collante che tiene insieme le comunità” e ha sottolineato come il processo evolutivo abbia premiato comportamenti prosociali e che la moralità umana affondi le proprie radici prima della comparsa dell’uomo stesso, per cui “quando agiamo in nome di un senso morale (…) prendiamo delle decisioni che derivano da istinti sociali che sono più antichi della nostra specie”.

Le orche (Orcinus orca), tra i più carismatici predatori dell’oceano, nonché membri più grandi della famiglia dei delfinidi, vivono in società matrilineari dette “pod”, adottano sofisticate strategie di caccia, hanno popolazioni con comportamenti totalmente differenti (per cui potrebbe non essere improprio parlare di “culture”) e hanno un’intelligenza emotiva di cui, probabilmente, non compendiamo ancora la portata.

Le orche, proprio come noi, hanno consapevolezza della morte e, come noi, sembrano faticare ad accettarla, come conferma la storia dell’orca J35, nota anche come Tahlequah.

La perdita di Tahlequah

Tahlequah è una femmina di circa 25 anni, appartenente alla popolazione di orche residenti meridionali (Srkw). Lo scorso 1 gennaio è stata osservata spingere il suo cucciolo morto con il muso, tenendolo delicatamente sul pelo dell’acqua, per evitare che le acque dello stretto di Puget, insenatura nel Nord-ovest del Pacifico, nello stato di Washington, lo inghiottano per sempre.

Tahlequah, hanno riferito i ricercatori del Northwest fisheries science center di Seattle, sta utilizzando molte energie per mantenere a galla il corpo del piccolo. Il lutto è infatti un’azione dispendiosa per i cetacei, sottrae loro tempo altrimenti dedicato alla ricerca di cibo. Le altre orche del gruppo stanno sostenendo Tahlequah, diverse femmine, in particolare sua sorella, sono state osservate costantemente al suo fianco, hanno detto i ricercatori, a testimonianza di come la morte di un membro del pod abbia ripercussioni su tutto il gruppo.

La piccola orca era una femmina, chiamata J61, e gli scienziati non conoscono ancora le cause della sua morte improvvisa, ma il tasso di mortalità è molto elevato per i nuovi nati nel primo anno.

“La morte di ogni piccolo di questa popolazione di orche a rischio estinzione è una perdita terribile, ma la morte di J61 è particolarmente devastante. Non solo perché era una femmina, che un giorno avrebbe potuto potenzialmente guidare il proprio gruppo, ma anche conoscendo la storia di sua madre, J35, che ha perso due dei quattro cuccioli documentati, entrambi femmine”.

Center for whale research

Un triste dejà vu

gruppo di orche
Le orche (Orcinus orca) si dividono attualmente in diversi ecotipi in base alle loro specializzazioni di caccia © iStock

Non è infatti la prima volta che Tahlequah deve affrontare ed elaborare un simile dolore. Nel 2018 era diventata nota per aver trasportato e accudito un altro cucciolo morto per un periodo e una distanza senza precedenti: ben diciassette giorni e circa 1.600 chilometri nel mare dei Salish, tra la Columbia Britannica e lo stato di Washington, un’anomalia anche per specie come orche o delfini, nei quali sono stati documentati comportamenti analoghi.

Il cucciolo era sopravvissuto poche ore e Tahlequah si era rifiutata di abbandonarlo anche quando, dopo quattro giorni, il resto del gruppo se ne era andato. “La carcassa del cucciolo stava affondando e veniva ripetutamente recuperata dalla madre, che la sosteneva e la spingeva nel mare agitato”, si legge una dichiarazione del Center for whale research.

Dopo aver vegliato il piccolo corpo per diciassette giorni, tra Canada e Stati Uniti, Tahlequah era stata avvistata mentre inseguiva un banco di salmoni, in compagnia del suo pod.

Oggi quella scena si sta ripetendo, e non sappiamo per quanto tempo l’orca trasporterà con sé il corpo senza vita di sua figlia.

isola Hornby
Costa dell’isola di Hornby, nella Columbia Britannica, bagnata dal mare dei Salish, porzione dell’Oceano Pacifico settentrionale © iStock

Quante orche ci sono

La perdita di Tahlequah, come detto, rappresenta una cattiva notizia per tutta la popolazione di orche residenti meridionali. La specie orca, cosmopolita poiché diffusa in tutti i mari del mondo, non è a rischio, ma gli studiosi ritengono che ce ne siano in realtà diverse specie o sottospecie.

Le diverse popolazioni sono attualmente suddivise in tre “ecotipi” e cacciano prede differenti: alcune quasi esclusivamente pesci, altre soprattutto mammiferi marini, altre hanno una dieta mista. Le analisi filogenetiche indicano una notevole differenza a livello genetico tra alcuni ecotipi, non necessariamente distanti tra loro geograficamente, i loro areali, anzi, spesso si sovrappongono (ciononostante le diverse popolazioni non interagiscono né non si accoppiano tra loro). Questi tre gruppi, ritengono gli scienziati, si sarebbero separati in un periodo compreso tre 700mila e 150mila anni fa.

La popolazione cui appartiene Tahlequah è chiamata “orche residenti meridionali”, perché vivono per tutto l’anno nelle acque costiere dello stato di Washington e della Columbia Britannica, note come mare dei Salish. Questi cetacei mangiano quasi esclusivamente salmone reale (Oncorhynchus tshawytscha) e attualmente si dividono in soli tre pod, conosciuti come J, K e L.

Il declino delle orche residenti meridionali

La popolazione ha subito un drastico calo (di quasi il 20 per cento) alla fine degli anni Novanta, causato soprattutto da caccia e catture per rifornire gli acquari, e attualmente, secondo il censimento condotto nel 2024 dal Center for whale research, conta appena 78 individui, di cui solo 23 femmine riproduttrici. A rendere ancora più allarmanti questi numeri c’è lo scarso successo delle gravidanze delle orche. Secondo uno studio del 2017, pubblicato sulla rivista Plos One, oltre due terzi delle gravidanze sono fallite tra il 2008 e il 2014.

Le orche residenti meridionali devono affrontare anzitutto tre minacce:

  • la notevole diminuzione della loro preda prediletta, il salmone reale, a causa dell’impatto della pesca e della costruzione di dighe per la produzione di energia idroelettrica, che ostacola l’accesso ai siti di riproduzione.
  • L’esposizione a sostanze tossiche, le orche infatti, come tutti i predatori marini apicali, assorbono grandi quantità di sostanze inquinanti, ingerite da tutti gli organismi della catena trofica. Tali sostanze, come i pesticidi che giungono in mare attraverso i fiumi, indeboliscono il sistema immunitario e riproduttivo delle orche. I cuccioli, a loro volta, possono soffrire dell’accumulo di tossine nel latte materno. Nel 2014 l’agenzia statunitense Noaa ha definito le orche residenti meridionali “uno dei più contaminati mammiferi marini del mondo”.
  • L’elevato traffico navale rappresenta infine un’altra minaccia per queste grandi creature marine. L’inquinamento acustico causato delle imbarcazioni (tra cui le numerose barche che accompagnano i turisti nei tour di whale watching) interferisce con il sistema di ecolocalizzazione con cui le orche individuano le prede.

Un recente studio dell’università della Columbia Britannica ha suggerito che quest’ultimo problema, ancora più della diminuzione delle popolazioni di salmone reale, rappresenti la principale minaccia per queste orche. Avrebbero, secondo lo studio pubblicato su Plos One, molto più accesso al salmone rispetto alle orche del Pacifico settentrionale, il rumore provocato dal traffico marittimo ostacola però in maniera significativa la loro capacità di cacciare.

Cuore di orca

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Alla base dell’empatia, capacità che, sia pure in gradi di complessità diversa, condividiamo con le altre specie animali, troviamo l’imitazione e il contagio emotivo, fattori essenziali per coordinare le attività di gruppo © iStock

Le orche, dopo una lunga gestazione che dura 15-18 mesi, danno alla luce un singolo cucciolo, di solito a intervalli di circa cinque anni. I cuccioli dipendono molto dalle loro madri, le quali si prodigano in prolungate e dispendiose cure parentali.

Le orche residenti meridionali, in particolare, mostrano un esempio estremo di cure materne prolungate, i maschi rimangono per tutta la vita legati alle proprie madri, tanto che quando un’orca femmina muore le probabilità di sopravvivenza dei suoi figli maschi diminuiscono dalle tre alle quattordici volte nel giro di un anno. Lo studio Costly lifetime maternal investment in killer whales, pubblicato su Current biology, ha cercato di comprendere l’effettivo “costo” (in termini riproduttivi) delle cure che la madre ha per i figli e che si protraggono, nel caso dei figli maschi, per tutta la durata della vita. I ricercatori, analizzando i dati dei censimenti di questa popolazione di orche raccolti per decenni, hanno riscontrato una correlazione negativa tra il numero di figli maschi svezzati sopravvissuti e la probabilità che le loro madri riescano con successo a dare alla luce un nuovo piccolo. Questo effetto negativo, si legge nello studio, non si attenua con l’avanzare dell’età dei figli.

Nei primati, compresi gli esseri umani, si ritiene che i legami a lungo termine tra madre e prole forniscano benefici reciproci, dando vita a relazioni mutualistiche, aumentando ad esempio la sopravvivenza materna, o dei fratelli più piccoli. “La mancanza di dati sui costi riproduttivi o sui benefici delle cure materne prolungate in altri taxa – hanno scritto gli autori della ricerca – ostacola la nostra comprensione di come si sia evoluta questa strategia”.

La lunga gestazione e le cure parentali implicano che le orche siano relativamente lente a riprodursi e che le madri allevino pochi cuccioli nel corso della loro vita. Anche per questo il lutto di Tahlequah (che, comunque ha avuto altri due cuccioli, entrambi vivi, nati rispettivamente nel 2010 e nel 2020) è ancora più straziante.

L’elaborazione del lutto nelle altre menti

Non sappiamo come le orche affrontino il lutto, alcuni scienziati sostengono che quando una madre spinge il corpo del piccolo con il suo muso stia cercando in realtà di rianimarlo. Il comportamento di questi sofisticati mammiferi marini, nei quali possiamo scorgere tanti punti in comune con la nostra specie, come la curiosità, la sensibilità e la socialità, fa tuttavia pensare che, come noi, provino dolore per la perdita e abbiano bisogno di elaborare il lutto.

Il termine “empatia” (che deriva dal greco ἐν, “in”, e -πάθεια, dalla radice παθ- del verbo πάσχω, “soffro”) indica la capacità di capire cosa provano gli altri, immedesimandosi a tal punto da coglierne i sentimenti e gli stati d’animo. Si tratta, come abbiamo scoperto, di una prerogativa tutt’altro che esclusiva del genere umano e che, anzi, dovremmo cercare di riscoprire (sia nei confronti dei nostri simili che verso gli altri animali), imparando qualcosa dalle orche e da Tahlequah, che continuerà a cullare la propria figlia senza vita, finché non ne accetterà la morte.

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