Perché continuano ad aprire maxiallevamenti, come quello di ovaiole ad Arborio

In un’epoca in cui consapevolezze e dati non mancano gli allevamenti intensivi continuano ad aprire, come nel caso del maxiallevamento di galline ovaiole ad Arborio. A spese di ambiente, persone e animali.

Arborio è una località famosa per il riso. A nominarla, non verrebbe certo in mente un maxi allevamento capace di contenere oltre 274mila galline ovaiole. No, Arborio rimanda alle risaie. Alle zanzare. All’acqua. Nei negozi delle aree di sosta attrezzate che punteggiano l’autostrada per raggiungerlo, il riso viene venduto in confezioni di plastica e stoffa come eccellenza locale. Zona di risaie e, quindi, di tradizione politica, quella delle mondine di Vercelli, le lavoratrici impiegate proprio nelle risaie, che hanno marciato e protestato e ottenuto il diritto ad una giornata lavorativa di otto ore e una paga oraria di 25 centesimi.

Eppure, oggi, arrivando verso il paese, il colosso di cemento incompiuto inizia a raccontare un altro capitolo di storia, quello di un comparto industriale, l’agribusiness, che non arretra. Il capannone in corso di costruzione ad Arborio è visibile dalla strada, e all’apparenza potrebbe essere un qualsiasi fabbricato industriale. Al punto che osservando le immagini sull’evoluzione dei lavori, sembra che siano già presenti in loco i nastri trasportatori per gli escrementi degli animali. Nello specifico, di galline ovaiole (esemplari allevati appositamente per la produzione di uova) allevate a terra, quindi di un tipo di struttura che non utilizza gabbie singole, ma una grande ed enorme gabbia, estesa a tutto il capannone, il cui pavimento è coperto da grate necessarie ad evitare l’accumulo al suolo di materia fecale. Un reticolato su cui le galline trascorrono la loro intera vita.

Un nuovo maxiallevamento, ad Arborio

Si parla di oltre 200mila galline, oltre 200mila soggettività per ogni ciclo produttivo, ammassate le une sulle altre. L’alta concentrazione di animali aumenta la produttività dello stabilimento, perciò considerando che una gallina può arrivare a produrre fino a 600 nell’arco della sua vita produttiva la cui durata varia dall’anno e mezzo ai due, gli allevamenti a terra su più piani massimizzano ulteriormente questo processo di raccolta. E lo fanno, attingendo anche alle tendenze protettive di questi animali, infatti, le galline preferiscono deporre le uova in ambienti riparati che nello spazio di un capannone industriale chiuso equivalgono ai posatoi per la raccolta delle uova.

Una produzione e una raccolta che hanno un consistente impatto ambientale, come le aziende ben sanno. In questo caso l’azienda Bruzzese sul proprio sito ha specificato l’impegno a tutela dell’ambiente intrapreso grazie ad una certificazione specifica, la Iso 14001. Teresa Agovino, ingegnere ambientale e Unwto Sustainable tourism consultant, spiega che questa certificazione in verità non produce garanzie “in merito alla sostenibilità dell’azienda” perché, pur essendo uno standard internazionale, “non definisce delle soglie da rispettare, non ci dice ad esempio se la quantità di emissioni è accettabile o qual è il consumo di massimo di acqua, definendo ad esempio i metri cubi di acqua in un certo intervallo temporale, ma permette a chi certifica di stabilire degli obiettivi, che sono ovviamente degli obiettivi personalizzati e migliorarli”. La certificazione, infatti, “fa riferimento alla gestione ambientale, non a parametri ben specifici” continua, spiegando che in effetti non definisce se un’attività sia o meno sostenibile, da nessun punto di vista, sia questo sociale, ambientale o economico. Dunque, si tratta di un protocollo stilato internamente, poi sottoposto ad una terza parte che però, di fatto, potrebbe rimanere più una dicitura che un’azione coerente con le reali necessità del territorio.

Se da un lato è la stessa Fao a dichiarare da anni che l’industria zootecnica è uno stabile e massiccio produttore di climalteranti, accompagnata da tutte le campagne che denunciano l’espressione concreta di queste cifre, la zootecnia non arretra. L’impatto di un allevamento di galline ovaiole, non riguarda solo le risorse richieste, come l’acqua o il terreno, ma anche le sostanze emesse in grandi concentrazioni.

L’inquinamento da allevamenti intensivi

Risulta infatti particolarmente efficiente nel produrre eccessi di ammoniaca e particolato Pm10 (il particolato è l’insieme delle sostanze tossiche presenti nell’aria, misurate in base alle loro microdimensioni), entrambi inquinanti atmosferici. L’ammoniaca in particolare è un inquinante primario che concorre alla formazione di Pm 2,5.

La produzione di inquinanti al massimo può essere ottimizzata, sempre secondo standard industriali, ma non certo cancellata. E il danno ambientale che la presenza concentrata di oltre 200mila galline per ciclo produttivo non può certo evaporare nel nulla, al massimo può distribuirsi nel territorio arborese inficiando la qualità della vita degli abitanti, delle persone che nello stabilimento lavoreranno e degli animali selvatici che in quei territori dimorano. Le cui acque e terre saranno contaminate e che, al netto dei volumi della struttura, sono già state intaccate proprio con la sua costruzione e il dispendio ecologico che inevitabilmente comporta.

Chi si oppone ai maxiallevamenti

A protestare contro la costruzione dell’allevamento di Arborio è il Comitato riso che, insieme ad altre realtà locali tra cui il collettivo Cani sciolti e Greenpeace, sta portando avanti una campagna di sensibilizzazione, una raccolta firme e una mobilitazione per protestare ed impedire la finalizzazione della costruzione e la messa in moto dello stabilimento ad Arborio e che si troveranno nuovamente in piazza a Vercelli il 29 giugno.

L’azienda Bruzzese non è nuova a queste controversie. Già nel gennaio 2012 si era trovata sotto i riflettori dei reportage di denuncia e delle campagne di protesta di Nemesi Animale che ha portato le immagini delle condizioni in cui vertevano le galline rinchiuse sotto gli occhi dell’opinione pubblica.L’azienda si era quindi mossa per vie legali, denunciando le persone attiviste per aver “videoripreso le fasi delle proprie condotte e averle diffuse via internet attraverso le testate giornalistiche e televisive”, tant’è che si era mobilitata anche Striscia la notizia.

La immagini mostravano le condizioni di sfruttamento delle galline, 328mila ammassate in condizioni di sovraffollamento, con cadaveri sia nelle gabbie che nei corridoio, evidentemente malate, con lesioni e zone spiumate derivate dallo sfregamento con le gabbie, con malformazioni ungueali e ai becchi, in chiaro stato di stress e sofferenza.

galline allevate a terra
L’allevamento di galline “a terra” non garantisce alcuna tutela sulla salute dell’animale © iStock

Ancora una volta gli animali non sono tutelati

“Nel caso degli allevamenti non c’è una valutazione specifica per le condizioni degli animali”, spiega sempre Teresa Agovino in merito alla certificazione Iso14001, ed in effetti, non potrebbe essere altrimenti. Dopotutto, questi ambienti si basano interamente sullo sfruttamento di corpi la cui presenza è determinata dalla produttività. Una gallina ovaiola viene lasciata vivere massimo due anni, prima dello svuotamento in cui viene operato il “vuoto sanitario”, quindi la rimozione degli esemplari quanto la loro capacità produttiva comincia a declinare.

La vita di una gallina in allevamento è subordinata alla sua capacità di produrre uova, fino a quanto conserva la capacità di espellere autonomamente uova ad un certo ritmo. Il declino fisiologico del corpo ingegnerizzato per l’iperproduzione però rende questo tempo non solo prevedibile, ma quasi programmabile. Ad un certo punto della sua esistenza non riuscirà più a fare. Subentrano disfunzioni rettali, uova ritenute che la gallina non riesce ad espellere, ferite non curate, infezioni, peritoniti, ferite derivate dalla violenza che scatema lo stress di trovarsi in un capanno, con centinaia di migliaia di altre galline senza lo spazio per non camminarsi addosso, e poi, infine, la morte per i traumi, le malattie o per il fine “carriera”.

Uova
Ogni anno vengono consumati 1600 miliardi di uova nel mondo © iStock

La produzione non si ferma davanti a nulla

Lo svuotamento dell’allevamento e la sua disinfezione lo lasciano disabitato per circa trenta giorni. Poi arriva il nuovo carico di galline che hanno raggiunto la maturità per la deposizione di uova (di circa cinque mesi) e la macchina si rimette in moto. A nastro. Riprende a fagocitare vite per produrre uova da consegnare impilate al supermercato.

Il cortocircuito tra ciò che sappiamo essere violento e inquinante e il condono della sua esistenza è la legittimazione industriale: la produzione non si ferma davanti a nulla. Soprattutto, quella che si compone e lucra materialmente sulla morte, perché dovrebbe dare segni di cedimento quando può continuare ad operare convertendo quella violenza strutturale in guadagno? Viviamo in un’era di consapevolezze, ed è il motivo per cui la sensibilizzazione e la mobilitazione crescono e cresceranno per evitare non solo che capannoni di questa foggia continuino a prosperare, intasando le periferie e le province, ma anche per impedire che questo sistema basato sullo sfruttamento degli animali non umani continui a esistere.

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