Si chiamava Saly, aveva cinque anni. Nello scatto vincitore del World press photo 2024, il concorso di fotogiornalismo più importante al mondo, non si vede un centimetro del suo corpo senza vita. E non si vede nemmeno il volto della zia, Ines Abu Maamar, che lo stringe forte a sé. Mohammad Salem, fotografo dell’agenzia Reuters,
Palestina, nel villaggio agricolo dove resistere è sinonimo di esistere
Mohammed Manasra è un imprenditore agricolo palestinese, Ibrahim Manasra è un tecnico dell’ong Palestinian agricultural relief committee. Entrambi sono stati in Italia per visitare alcune aziende agricole biologiche dell’Emilia Romagna e hanno raccontato la loro storia di resistenza non violenta attraverso l’amore per la terra. I due sono arrivati direttamente dalla Palestina il 31 gennaio scorso e hanno
Mohammed Manasra è un imprenditore agricolo palestinese, Ibrahim Manasra è un tecnico dell’ong Palestinian agricultural relief committee. Entrambi sono stati in Italia per visitare alcune aziende agricole biologiche dell’Emilia Romagna e hanno raccontato la loro storia di resistenza non violenta attraverso l’amore per la terra.
I due sono arrivati direttamente dalla Palestina il 31 gennaio scorso e hanno fatto visita alle aziende che da anni, nei dintorni di Modena e di Bologna, hanno deciso di adottare le tecniche di coltivazione biologica. Anche Mohammed, infatti, da cinque anni è imprenditore agricolo: possiede alcuni ettari di terra coltivati a biologico nel villaggio di Wadi Foukin.
Situato in una valle particolarmente fertile non lontano da Betlemme, in territorio palestinese, Wadi Foukin è abitato da 1.200 anime con una grande tradizione agricola. In Palestina l’agricoltura rappresenta ancora oggi il 30 per cento del pil. Il villaggio ha anche un’altra grande particolarità: possiede pozzi per la raccolta di acqua piovana che fanno parte di un antico sistema di irrigazione e che rendono i terreni facili da coltivare.
Mohammed e Ibrahim, però, non sono stati in Italia solo per imparare nuove tecniche di coltura. L’organizzazione Overseas, ong italiana che opera nelle aree rurali della Cisgiordania, ha organizzato una serie di incontri in Italia, in collaborazione con Assopace Palestina, per portare alla luce la testimonianza della resistenza non violenta di Mohammed (e quella di molti altri) nei confronti dell’occupazione israeliana.
“Abbiamo sudato nei campi con Mohammed e abbiamo voluto rafforzare questa relazione con lui ospitandolo in Italia, perché ci potesse portare una testimonianza reale”, ha dichiarato Roberto Cerrina di Overseas. “Wadi Foukin è un villaggio tra Betlemme e Hebron, in una delle aree a maggior concentrazione di colonie israeliane: ne nascono in continuazione — ha continuato Cerrina — tanto da aver creato una specie di cintura intorno al villaggio palestinese, nel tentativo di inglobarlo. Qui l’agricoltura è, quindi, la forma più forte di resistenza non violenta all’occupazione, attraverso l’amore per la terra”.
Le terre di Wadi Foukin sono costantemente minacciate dall’avanzata delle colonie, nonostante sin dal 1949 si trovi fuori dai confini delineati dalle occupazioni israeliane. Il villaggio ha subìto molteplici aggressioni. Nel 1954 la maggior parte della popolazione è stata costretta a trasferirsi nel campo profughi di Dheisheh, ma ha continuato a coltivare e raccogliere in segreto fino al 1972, quando è stata in grado di tornare a seguito dei negoziati con Israele.
La terra di Wadi Foukin non è mai stata abbandonata ed è tutt’oggi fertile e coltivabile. Per questo motivo non potrebbe essere espropriata in modo legittimo dai coloni. Purtroppo, però, l’avanzata israeliana non si ferma e ormai i territori palestinesi si sono ridotti a un quarto di quelli originariamente destinati.
I coloni hanno cominciato a rubare la terra a poco a poco, ricorrendo a tecniche di confisca illecite e violente: quest’estate, per esempio, i circa 800 ulivi di Mohammed sono stati sradicati “per motivi di sicurezza”. I suoi campi subiscono continuamente sabotaggi di ogni tipo — le piantagioni vengono tagliate, l’acqua dei pozzi viene inquinata dalle acque nere degli insediamenti vicini — ma Mohammed, con caparbietà, continua a irrigare e lavorare i propri campi: “Prima o poi gli alberi, le piante si riprenderanno, ricresceranno. E finché avrò la mia terra, io sarò felice”.
Così l’agricoltura, biologica per di più, diventa la forma di resistenza fondamentale. Mohammed si è laureato in gestione aziendale, ma dopo qualche esperienza come impiegato, ha deciso di ricomprare le terre del nonno e coltivarle. Perché da queste parti il rapporto con la terra è una questione di esistenza, letteralmente. Le terre coltivate non possono essere confiscate, mentre una terra che non fa frutti è edificabile; continuare a lavorarla significa esistere, come individuo ma, soprattutto, come popolo.
In realtà, la scelta di Mohammed è stata anche imprenditoriale perché ha investito più di 100mila dollari e a breve investirà altro denaro nella costruzione di una serra all’avanguardia. “La Palestina, in realtà, non ha bisogno del nostro aiuto per lo sviluppo — ha continuato Cerrina — se non ci fossero occupazione e conflitto, sarebbe un paese sviluppato, assolutamente in grado di fare agricoltura ed economia”.
Mohammed ha scelto di fare agricoltura biologica soprattutto perché vuole “mangiare sano: con questo tipo di agricoltura, la terra rimane viva, non si stanca. In più, proprio perché naturale, è redditizia in quanto non richiede costi aggiuntivi”.
E alla domanda: “Credi che la scelta di coltivare biologico sia anch’essa in qualche modo una resistenza?”, Mohammed risponde sicuro: “Una volta, tutti qui coltivavano naturalmente. Prima che arrivassero gli israeliani”.
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