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Se ci chiedessero quale sia il modo migliore per proteggere e tutelare le foreste, la risposta più comune sarebbe fare in modo che l’uomo le lasci in pace, tenendosi lontano. Niente di più sbagliato. Secondo un nuovo studio pubblicato dal World resources institute (Wri) e dal Rights and resources initiative il modo migliore per proteggere
Se ci chiedessero quale sia il modo migliore per proteggere e tutelare le foreste, la risposta più comune sarebbe fare in modo che l’uomo le lasci in pace, tenendosi lontano. Niente di più sbagliato. Secondo un nuovo studio pubblicato dal World resources institute (Wri) e dal Rights and resources initiative il modo migliore per proteggere i polmoni del pianeta è consegnarle nelle mani delle popolazioni indigene e delle comunità locali, le uniche in grado di rispettarle e prendersene cura, preservandole dalle minacce esterne.
Il rapporto si chiama Securing rights, combating climate change e conclude che per ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera causate dalla deforestazione e dall’uso del suolo, pari all’11 per cento del totale, è fondamentale aumentare le responsabilità delle comunità che dipendono direttamente dalle foreste e concedere loro il controllo dei diritti di sfruttamento delle risorse naturali.
Nelle foreste controllate dalle comunità locali il tasso di deforestazione è molto più basso rispetto alle aree forestali dove l’uomo è tenuto lontano. In Brasile, ad esempio, dal 2000 a oggi il tasso di deforestazione fuori dai territori indigeni è stato del 7 per cento. Al loro interno è stato dello 0,6 per cento. Consegnare le foreste in mano alle comunità locali è stato uno dei punti di forza del governo brasiliano nel raggiungere l’obiettivo di fermare e ridurre il tasso di deforestazione nel corso degli ultimi anni. Secondo le stime presenti nel rapporto, i territori indigeni presenti nell’Amazzonia brasiliana potrebbero evitare l’emissione di 12 miliardi di tonnellate di CO2 da qui al 2050.
La spiegazione che c’è dietro questi dati è molto semplice. I popoli che dipendono dalle foreste per procurarsi il cibo, le medicine, le materie prime e altri servizi essenziali, sono gli unici davvero interessati a gestirle in modo sostenibile. Molto più di qualsiasi azienda, società agricola o agenzia governativa.
Quello brasiliano non è l’unico esempio di come le comunità locali siano in grado di combattere la deforestazione e quindi i cambiamenti climatici. Nel dipartimento di Petén, in Guatemala, dove si trova la riserva della biosfera Maya, la deforestazione è venti volte inferiore nelle aree gestite dagli indigeni rispetto a quelle tutelate, ma disabitate. Nello stato dello Yucatán, in Messico, il tasso di deforestazione è addirittura 350 volte inferiore all’interno delle comunità forestali. In Niger, la politica del governo di rendere gli agricoltori più indipendenti e responsabili ha portato alla piantumazione di 200 milioni di alberi negli ultimi venti anni, pari a 30 milioni di tonnellate di CO2 stoccate. Oggi sono 513 milioni gli ettari di foreste concessi alle comunità locali che stoccano 37 miliardi di tonnellate di CO2, 29 volte quella prodotta ogni anno da tutti gli automobilisti del mondo.
Proteggere le foreste attraverso l’istituzione di parchi e riserve naturali, dunque, non sembra sufficiente. Per combattere davvero la deforestazione e il cambiamento climatico bisogna investire sulle comunità locali aumentando i loro diritti e le loro responsabilità. Bisogna credere in loro. Non farlo e limitarsi a moratorie, come in Indonesia che ha superato il Brasile nella classifica di chi deforesta di più, rischia di rivelarsi una politica vuota, inutile. Per tutti questi motivi, salvaguardare le minoranze e la grande varietà di popolazioni indigene presenti nel mondo oggi ha un obiettivo ulteriore alla protezione di una ricchezza etnica, linguistica e culturale altrimenti a rischio. Un obiettivo globale: contrastare il cambiamento climatico.
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