La lista dei modi in cui stiamo uccidendo gli oceani e i mari

La salute degli oceani è in grave pericolo a causa dell’impatto antropico, diretto e indiretto. Ecco le principali cause del loro declino.

Gli oceani sono senza dubbio gli ecosistemi più misteriosi del pianeta, dei quali abbiamo ancora una conoscenza parziale e frammentaria. A prima vista possono sembrarci immutabili e potremmo pensare che lo sfacelo ambientale che attanaglia le terre emerse non riguardi la vita sottomarina, ma non è così, anzi. Gli oceani stanno vivendo una crisi senza precedenti causata da una serie di fattori che hanno un unico comune denominatore: l’uomo. In occasione della Giornata mondiale degli oceani dell’8 giugno analizziamo le cause principali del degrado di questi ambienti, così preziosi per la nostra sopravvivenza e per la salute dell’intero pianeta.

Coralli morenti
Uno studio compiuto nel 2008 su oltre 800 specie di coralli ha riscontrato che un terzo delle specie esaminate era a rischio estinzione © Australian Marine Conservation Society

Acidificazione degli oceani

Elizabeth Kolbert, autrice del libro La sesta estinzione, vincitore del premio Pulitzer 2015, ricorda che l’acidificazione degli oceani viene spesso definita “il gemello cattivo” del riscaldamento globale, evidenziando come rappresenti il pericolo peggiore e più imminente. Dall’inizio della rivoluzione industriale gli uomini hanno bruciato un’enorme quantità di combustibili fossili, immettendo nell’atmosfera tonnellate metriche di carbonio, provocando la più elevata concentrazione di diossido di carbonio nell’aria degli ultimi 800mila anni. I gas presenti nell’atmosfera vengono assorbiti dagli oceani, i quali si trovano ora a dover assorbire spropositate quantità di CO2 (circa 2 miliardi e mezzo di tonnellate di carbonio all’anno). A causa dell’eccessiva quantità di CO2 il Ph della superficie oceanica è calato drasticamente. Si stima che attualmente gli oceani abbiano un’acidità del 30 per cento maggiore rispetto a quella del 1800 e questa situazione è in costante peggioramento. Prima della fine del secolo gli oceani saranno 150 volte più acidi di quanto non fossero all’inizio della rivoluzione industriale. Alcune specie sopravvivranno alle nuove condizioni, ma si ritiene che la maggior parte di loro non ce la farà ad adattarsi e si andrà verso una grande riduzione della biodiversità. L’acidificazione, nello specifico, modificherà la composizione delle comunità microbiche, la disponibilità di alcuni elementi nutritivi, la quantità di luce che filtrerà attraverso l’acqua e le modalità di propagazione del suono. È inoltre probabile che favorisca la proliferazione di alghe tossiche e che incida sulla fotosintesi. Fenomeni simili sarebbero già accaduti in passato, e sarebbero stati decisivi in almeno due delle grandi estinzioni di massa della storia della Terra, la differenza è che ora l’immissione di CO2 negli oceani sta avvenendo ad una velocità senza precedenti. Le prime vittime di questo processo saranno gli ecosistemi più ricchi dei mari, le barriere coralline, che non sopravvivranno a questo secolo.

Plastica in spiaggia
Il maggiore impatto sulla fauna marina è provocato dalle microplastiche, frammenti di plastica inferiori ai 5 millimetri, che possono essere prodotte dall’industria o derivare dalla degradazione in mare per effetto del vento, del moto ondoso o della luce ultravioletta di oggetti di plastica più grandi © Christopher Furlong/Getty Images

Inquinamento da plastica

Gli oceani sono diventati un enorme pattumiera e il rifiuto più comune è quello che meglio simboleggia la nostra “civiltà” usa e getta, la plastica. Secondo un recente studio nel 2050 il quantitativo di plastica nel mare sarà superiore a quello di pesce, mentre una ricerca del 2015 ha scoperto che il 90 per cento degli uccelli marini di tutto il mondo ha rifiuti di plastica nello stomaco. Ogni anno si stima che otto milioni di tonnellate di plastica finiscano negli oceani, qui, dopo essersi deteriorata in minuscoli frammenti, viene ingerita dagli organismi marini, risalendo poi l’intera catena alimentare fino a giungere nei nostri piatti. I rifiuti plastici causano ogni anno la morte di 1,5 milioni di animali, secondo un recente studio sono 690 le specie minacciate dai rifiuti presenti in mare, di queste il 17 per cento è in pericolo di estinzione.

Squalo morto
Ogni anno vengono pescate dal mare 91 milioni di tonnellate di fauna selvatica © Joe Raedle/Getty Images

Sovrasfruttamento delle popolazioni ittiche

Negli ultimi 45 anni abbiamo perso circa metà della fauna marina mondiale. Una delle principali cause di questo olocausto oceanico è la pesca eccessiva che pretende dal mare più di quanto possa offrire. La pesca moderna non è infatti selettiva, ma è caratterizzata da prelievi sproporzionati effettuati con metodi altamente impattanti, come la pesca a strascico e i palangari. Secondo la Fao “quasi un terzo degli stock di pesce è prelevato a ritmi biologicamente insostenibili”. A rendere ancora più insopportabile questo processo c’è il fenomeno collaterale delle cosiddette “prede accessorie”, con questo termine si indicano quelle creature marine catturate per sbaglio al posto dei pesci bersaglio, anche se, come ci ricorda Jonathan Safran Foer, “non è davvero per sbaglio perché le prede accessorie sono parte costitutiva dei metodi di pesca contemporanei che generano catture abnormi con quantità di prede accessorie abnormi”. Nell’interminabile elenco delle prede accessorie troviamo uccelli marini, tartarughe, balene, delfini e foche. Per ogni chilo di gamberetti pescati a strascico in Indonesia vengono uccisi e gettati in mare 24 chili di altre creature marine. Mentre chi mangia tonno contribuisce solitamente all’uccisione gratuita di centoquarantacinque specie. Secondo la Paw Ocean Commission abbiamo inoltre “rimosso una quantità pari al 90 per cento dei grandi pesci predatori come squali, pesce spada e merluzzi dagli oceani del mondo”.

Gamberetti in ghiaccio
L’industria dei gamberetti è responsabile del 30% delle catture accessorie globali e del 25% di distruzione delle mangrovie © Ingimage

Acquacoltura insostenibile

L’acquacoltura, ovvero l’allevamento di pesci, si propone come alternativa all’eccessiva pressione sulle popolazioni ittiche catturate in natura. In realtà anche questa pratica ha un notevole e specifico impatto ambientale. Lo sviluppo dell’acquacoltura ha inquinato le acque circostanti con materiali di scarico e ha diffuso malattie tra gli allevamenti di pesci. “Ma l’industria dell’allevamento del pesce decima anche la popolazione di pesce selvatico – scrive Lisa Kemmerer nel libro Mangiare il pianeta. – Gli allevamenti generalmente allevano pesci carnivori come il salmone e dipendono da pesci catturati in natura per nutrire i pesci da allevamento”. In questo modo “gli allevamenti ittici consumano molto più pesce di quello che possono offrire”. Per fare spazio agli allevamenti vengono inoltre devastati preziosi ecosistemi, centinaia di migliaia di ettari di mangrovie e di paludi costiere in tutto il mondo, ad esempio, sono state trasformate in allevamenti di pesci e gamberetti.

Medusa che nuota
L’aumento delle temperature marine e l’acidificazione degli oceani penalizzeranno molti organismi ma favoriranno la diffusione di altri, come le meduse, il cui numero è in costante aumento © Ingimage

Specie aliene

Anche il proliferare di specie alloctone minaccia la salute degli ecosistemi marini. A causa dell’aumento della temperatura media globale, molte specie aliene hanno espanso il proprio areale colonizzando aree che un tempo gli erano precluse, causando spesso danni alla biodiversità locale. Secondo l’Unione mondiale per la conservazione della natura l’espansione del canale di Suez è responsabile dell’arrivo di molte specie invasive nel mar Mediterraneo. Ma la diffusione di questi animali è causata anche dall’uomo, più o meno volontariamente. Molti organismi vengono infatti trasportati da una parte all’altra del mondo nell’acqua di zavorra delle navi, che le imbarcazioni usano per stabilizzare lo scafo e che viene poi scaricata nel mare d’arrivo.

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