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I combattenti dell’Isis controllano numerosi giacimenti. Secondo alcune inchieste, parte del greggio passerebbe per la Turchia e raggiungerebbe l’Europa.
Per fare una guerra – come quella che ha scatenato ormai da tempo l’Isis a cavallo tra Siria e Iraq, “esportata” in Occidente nelle forme del terrorismo – occorre denaro. Molto denaro. Proprio per questa ragione l’esercito dello Stato Islamico ha individuato una serie di mezzi per finanziarsi. Primo fra tutti, il petrolio.
In un articolo pubblicato alla metà di ottobre, il Financial Times denunciava il fatto che “benché il primo obiettivo dichiarato dalla coalizione militare internazionale che combatte il gruppo sia stato proprio il greggio, il commercio da parte dell’Isis prosegue indisturbato”. Grazie ai proventi che ne derivano, gli integralisti possono acquistare le armi e le risorse di cui necessita la loro macchina bellica.
“Numerose testimonianze – prosegue il quotidiano economico – hanno rivelato l’esistenza di massicce operazioni, simili a quelle che può effettuare una compagnia petrolifera di stato”. Dai giacimenti siriani di al-Omar e al-Jabsah, fino ai pozzi di Ajil e Allas, nel cuore dell’Iraq, sono numerosi i giacimenti che sono stati controllati (o che lo sono tuttora) dall’Isis. I guerriglieri hanno anche ingaggiato esperti del settore, ingegneri e manager, offrendo loro lauti stipendi, al fine di massimizzare i profitti. Tanto da arrivare ad una produzione stimata, oggi, in 34-40 mila barili al giorno. Tenendo conto che il petrolio è venduto tra 20 e 45 dollari al barile, si possono ipotizzare ricavi quotidiani pari a circa un milione e mezzo di dollari. E per il “contante”, spiega uno studio pubblicato dal ministero delle Finanze britannico, gli integralisti possono contare su una rete di banche locali compiacenti.
Alcuni giacimenti iracheni, nello scorso mese di aprile, sono stati recuperati dall’esercito governativo di Baghdad. Ma in soli dieci mesi di possesso hanno garantito all’Isis 450 milioni di dollari. È questa la grande differenza tra al-Qaeda e lo Stato Islamico: la prima è un’organizzazione che vive soprattutto di donazioni provenienti da alcuni ricchi fiancheggiatori. Il secondo cerca invece di affermarsi come sistema indipendente. Resta da chiedersi a chi gli integralisti vendano il loro petrolio. Ebbene, nell’area da loro controllata, a dipendere dai carburanti del Daesh è l’intera società. Per ospedali, negozi, macchine agricole, generatori di elettricità, il gasolio è infatti fondamentale (secondo le stime, gli integralisti controllano un’area abitata da circa dieci milioni di persone).
Ma anche all’esterno, a comprare il petrolio dell’Isis sono in molti: a volte in modo consapevole, a volte no. Secondo il giornale inglese, perfino i ribelli siriani, che combattono contro lo Stato Islamico, sono costretti ad acquistare carburante per i loro approvvigionamenti. Ma non è tutto: un’inchiesta del mensile francese Alternatives Economiques sostiene che l’Isis riuscirebbe perfino “a vendere petrolio sul mercato internazionale, grazie a delle reti di contrabbando che veicolano il greggio, preventivamente raffinato per mezzo di installazioni mobili, verso la Turchia”.
Una circostanza confermata anche da alcuni esperti intervistati nel 2014 dal New York Times, che hanno puntato il dito proprio sui carichi che, passando per il territorio turco grazie al pagamento di tangenti, vengono poi “ripuliti” e inviati verso l’Europa. Un anno fa, l’ambasciatrice dell’Ue in Iraq, Jana Hybaskova, aveva dichiarato senza mezzi termini davanti a un gruppo di parlamentari che “alcuni Stati membri acquistano il petrolio dell’Isis”. In una conferenza stampa, lo scorso 16 novembre, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato di aver visto personalmente fotografie satellitari che mostrano “convogli di camion lunghi decine di chilometri”. In marcia verso i mercati globali.
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