Picasso e il primo restauro sperimentale alle nanotecnologie

Per quanto avvezzo ai primati e al culto feticistico di una vera celebrità, neppure Pablo Picasso in persona, tanto megalomane quanto potrebbe permettersi di esserlo uno Zeus dell’Olimpo dell’arte, avrebbe forse mai osato pronosticare nulla di simile: ritrovarsi ad essere, a poco più di 40 anni dalla sua morte, l’artista prescelto per testare, attraverso uno

Per quanto avvezzo ai primati e al culto feticistico di una vera celebrità, neppure Pablo Picasso in persona, tanto megalomane quanto potrebbe permettersi di esserlo uno Zeus dell’Olimpo dell’arte, avrebbe forse mai osato pronosticare nulla di simile: ritrovarsi ad essere, a poco più di 40 anni dalla sua morte, l’artista prescelto per testare, attraverso uno dei suoi capolavori, la più progredita tecnologia di restauro inventata finora.

Un primato orgogliosamente italiano, recentemente promosso dall’Università di Firenze nell’ambito del progetto europeo Nanorestart che si avvale degli apporti sinergici di restauratori, ingegneri chimici e biomedici, ideatori di una particolarissima applicazione degli strumenti nanotecnologici.

Lo scorso autunno il nuovo protocollo è felicemente approdato al suo primo ambizioso traguardo: riportare agli antichi splendori uno dei più iconici dipinti picassiani di tutti i tempi, ovvero la tela intitolata “L’atelier” (1928), seconda versione del medesimo soggetto dipinto un anno prima dal genio di Malaga e raffigurante appunto il suo studio.

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Picasso, “L’atelier”, 1928.

Un’opera dal valore stimato attorno ai 140 milioni di euro che al di là del tema specifico fu ben presto identificata come una delle rappresentazioni più eloquenti ed emblematiche della rivoluzione picassiana, cioè della spiccata tensione verso la ricerca di forme sempre più essenziali, geometriche e rarefatte dietro le sembianze del mondo e degli oggetti.

Un laboratorio mobile ospitato alla Guggenheim

Sebbene si narri di una bizzarra idiosincrasia di Picasso verso i primi computer e le tecnologie in generale, di certo, da sperimentatore instancabile e audacissimo quale indubbiamente era in ambito artistico, il maestro non avrebbe potuto esimersi dall’ammirare una metodologia di restauro tanto ingegnosa quanto quella messa a punto dal capo conservatore della Guggenheim veneziana Luciano Pensabene e dalle sue colleghe del Centre Pompidou e della Guggenheim newyorkese.

Il procedimento, attuato nell’ambito di un laboratorio mobile installato a Palazzo Venier dei Leoni, sede veneziana del dipinto a suo tempo acquistato dalla leggendaria Peggy Guggenheim, si basa sull’impiego di una serie di avveniristici nanogel selettivi ideati grazie alle ricerche chimiche a suo tempo intraprese per ovviare ai danni provocati dall’alluvione di Firenze.

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Palazzo Venier dei Leoni, sede veneziana della Fondazione Guggenheim

In estrema sintesi, le sostanze contenute all’interno di tali nanogel (ad esempio acqua o solventi) vengono per così dire “ingabbiate”, cioè possono agire sulla superficie della tela senza penetrare all’interno di essa e dunque senza rischiare di alterarne o deteriorarne il supporto.

Inoltre, a ulteriore tutela dell’integrità del dipinto di Picasso, gli interventi sono stati preventivamente testati su un modellino di tela appositamente ricreato con materiali e caratteristiche il più possibile simili all’originale.

Ricostruire la genealogia di un dipinto epocale

I brillanti esiti dell’operazione, che verrà replicata in futuro anche in altri musei e a beneficio di altre opere, a cominciare probabilmente da alcune di quelle di Max Ernst già presenti nella medesima sede veneziana della Guggenheim, sono stati dettagliatamente illustrati nel corso di un convegno svoltosi alla Tate Britain ed incentrato sulle tre figure di Picasso, Picabia e dello stesso Ernst.

Del resto l’importanza di un quadro come quello prescelto per inaugurare il metodo, ovvero “L’atelier”, ha reso particolarmente proficuo ed appropriato il restauro in questione, innanzitutto perché si tratta di un palinsesto, ovvero di una versione successiva a quella originaria, che Picasso volle modificare sovrapponendo ai colori e alle forme precedenti una colata di bianco ed accentuando il segno grafico, al fine di ottenere un più radicale ed innovativo effetto di essenzialità concettuale.

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L’équipe dei restauratori al lavoro alla Guggenheim di Venezia

L’intervento a base di nanotecnologie ha dunque consentito non soltanto di ricostruire con ulteriore precisione la genealogia del dipinto ma anche di ovviare ai danni prodotti da un restauro precedente, in cui la cera e la resina utilizzati per la reintelaiatura avevano alterato sensibilmente la tonalità originale del bianco.

Un risultato straordinario per un’opera il cui singolare valore fu intuito sia dall’autore, che volle ricomprarla dopo averla venduta, sia dalla collezionista Peggy Guggenheim che l’acquistò a sua volta, avendo probabilmente intuito come in essa trovasse compimento proprio quel proposito artistico che Picasso perseguì instancabilmente dall’inizio alla fine: “Ho impiegato una vita intera per imparare a dipingere come un bambino”.

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