Plastica in mare

I pesci muoiono di fame con lo stomaco pieno (di plastica). Ma le soluzioni esistono

Tania Pelamatti, biologa marina, spiega qual è l’impatto dei rifiuti plastici negli oceani. Ridurre l’inquinamento si può, anche grazie alla tecnologia.

175 paesi hanno accettato di redigere un trattato volto a contrastare l’inquinamento causato dalla plastica. Una minaccia che, proprio come i cambiamenti climatici, rischia di rendere la Terra “inabitabile”: questo è quanto affermano gli esperti dell’Environmental investigation agency.

La produzione di questo materiale sintetico è più che raddoppiata negli ultimi vent’anni e circa 11 milioni di tonnellate di rifiuti plastici si riversano ogni anno nei bacini idrici, ma le Nazioni Unite prevedono che tale cifra triplicherà entro il 2040. Solo nel mar Mediterraneo, ne finiscono annualmente 230mila tonnellate.

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Frammenti di materie plastiche sono stati trovati a ogni altitudine, dall’Himalaya fino al fondo degli oceani © Dan Kitwood/Getty Images

Nuove soluzioni per eliminare la plastica dal mare

Oltre ai Seabin installati nei porti – che si possono definire veri e propri “cestini della spazzatura” per il mare –, Poralu Marine, partner principale dell’iniziativa LifeGate PlasticLess, ha creato due nuovi dispositivi per la raccolta dei rifiuti galleggianti: Trash Collec’Thor e Pixie Drone. Il primo ha una capacità di cento chili, mentre il secondo è un vero e proprio “aspirapolvere” telecomandato che si muove a una velocità di tre km/h.

La speranza di LifeGate PlasticLess è quella di riuscire a installarne uno in ogni marina, così da proteggere tutti gli abitanti dell’oceano dall’impatto della plastica. Di questo abbiamo parlato con la dottoressa Tania Pelamatti, biologa marina e National Geographic explorer che ha dedicato il suo dottorato di ricerca alle mante e alla loro possibile interazione con i detriti plastici.

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Ecco Pixie Drone, uno dei nuovi dispositivi “mangiaplastica” realizzati da Poralu Marine © Poralu Marine

Perché la plastica è così pericolosa per l’oceano e per i suoi abitanti?
Innanzitutto, perché la plastica è un materiale molto resistente; pertanto, una volta che arriva negli oceani, ci può restare per centinaia di anni (il tempo preciso non si sa perché la plastica è stata inventata da meno di un secolo e, quindi, tutta quella prodotta a partire dalla sua invenzione si trova ancora su questa terra, oppure è stata bruciata). E in tutto questo tempo che permane negli oceani, può essere trasportata dalle correnti anche verso zone remote e pristine, entrare in contatto con tantissime specie marine e causare diversi effetti. Quello più evidente è l’impigliamento, per cui gli animali non riescono a muoversi, alimentarsi, respirare e quindi rischiano di morire a causa della plastica.

Un’altra conseguenza negativa è l’ingestione, che è molto comune negli animali marini, soprattutto in tartarughe e uccelli. Gli animali scambiano la plastica per cibo, la ingeriscono e questa può causare blocchi intestinali, perforazioni, senso di sazietà quando in realtà la plastica non può essere digerita e quindi non ha nessun apporto nutrizionale. Gli animali muoiono di fame con lo stomaco pieno (di plastica). Ma oltre a questi effetti visibili, ci sono altri effetti più subdoli su cui ora la ricerca si sta concentrando. Per esempio, la plastica che sta in mare può concentrare sulla sua superficie tantissime sostanze inquinanti che poi vengono rilasciate nello stomaco degli animali che la ingeriscono. Queste sostanze possono poi accumularsi nei tessuti degli organismi e ripercuotersi negativamente sulla loro salute e su quella di chi se li mangia.

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Manifestazione a Los Angeles contro l’inquinamento causato dalla plastica © Lou Dematteis/Spectral Q/Getty Images

Qual è in particolare il suo impatto sulle mante, animali che lei ha studiato da vicino?
Le mante sono animali molto curiosi, e per questo può capitare che restino impigliate in diversi tipi di plastica – soprattutto reti, cime e lenze. Le mante giganti non possono fare retromarcia e quindi, una volta che si scontrano con qualche oggetto, questo spesso viene poi trasportato per molto tempo, causando ferite e rallentando il nuoto di questi magnifici animali. Purtroppo ho visto molte mante con lobuli cefalici (le pinne a forma di corna che hanno ai lati della bocca) amputati a causa di questi incidenti.

Un altro aspetto che ho studiato è la presenza di inquinanti nei loro tessuti, sostanze chimiche prodotte dall’uomo che possono essere state ingerite attraverso microplastica contaminata. Le mante si nutrono di zooplancton, piccoli animali marini che vengono catturati attraverso un efficiente meccanismo di filtrazione che trattiene tutto ciò che è più grande di circa 1/3 di millimetro. Per questo motivo, le mante (così come tanti altri animali marini filtratori) possono ingerire non solo la plastica, ma anche la microplastica (<5 mm), che accumula alte concentrazioni di inquinanti.

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Le mante sono animali curiosi che rischiano di rimanere impigliati nei rifiuti galleggianti o di ingerire sostanze inquinanti © Fernando Jorge/Unsplash

Cosa si può fare per invertire il trend?
Per fortuna tutti possiamo fare la nostra parte per ridurre la quantità di plastica che viene dispersa nell’ambiente e, di conseguenza, negli oceani. Si è visto che il 60 per cento della plastica che si trova in mare è costituita da oggetti monouso come bottiglie, buste, imballaggi, bicchieri e posate di plastica. Oggetti che usiamo ogni giorno, quindi, e di cui possiamo ridurre l’uso quando possibile, scegliendo alternative più sostenibili come materiali di lunga durata (vetro, metallo, cotone, legno) che possono essere riutilizzati per anni, riducendo le quantità di plastica monouso che deve essere prodotta e smaltita.

E, naturalmente, dobbiamo fare la raccolta differenziata al meglio, stando molto attenti alle confezioni dei prodotti (spesso la carta sembra plastica e viceversa, per cui bisogna stare attenti e leggere le indicazioni che si trovano sulle confezioni). Anche le scelte che facciamo al supermercato possono influenzare poi le decisioni dei produttori, e indirizzarli verso materiali amici dell’ambiente. Possiamo scegliere per esempio cibo confezionato in cartone piuttosto che in plastica, preferire prodotti sfusi e, naturalmente, portare le buste da casa quando si va a fare la spesa.

Anche le nostre scelte di abbigliamento hanno un impatto: ciò che indossiamo e per quanto tempo lo usiamo prima di farlo finire tra i rifiuti è importante. La cosiddetta fast fashion spinge la produzione di tessuti sintetici e quindi la richiesta di materiali plastici per oggetti che vengono indossati per poche volte prima di diventare un rifiuto spesso difficile da smaltire. Essere sempre all’ultima moda ha un costo ecologico importante: ne vale veramente la pena?

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