Il difficile rapporto tra lo sport e le atlete trans

Quello delle atlete trans è un tema sempre più di attualità che lo sport mondiale però non sa bene come gestire, in attesa che la scienza dica qualcosa.

Il 23 giugno 1972, l’amministrazione dell’allora presidente degli Stati Uniti d’America Richard Nixon approvò una legge – la Title IX – con lo scopo di impedire ogni forma di discriminazione di genere in tutte le scuole federali del Paese. Tra i vari settori, lo sport fu quello dove questa legge ebbe più impatto, garantendo alle donne di avere le stesse possibilità di accesso allo sport degli uomini. 41 anni dopo, l’amministrazione dell’attuale presidente Joe Biden ha proposto di inserire un’ulteriore clausola nella legge, dando la possibilità alle scuole di escludere le e gli atleti trans dalle competizioni sportive. La proposta di Biden ha da subito sollevato parecchie polemiche, perché per molti questa clausola va contro il principio di uguaglianza che si propone di difendere la Title IX, ma lo stesso dipartimento dell’Istruzione statunitense ha sottolineato che la volontà della legge è proprio di garantire regolarità nelle competizioni sportive scolastiche e al tempo stesso dare un’indicazione a scuole elementari, medie, licei e università su come gestire casi del genere.

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Lia Thomas nel 2022 © Rich von Biberstein/Icon Sportswire via Getty Images

Lo sport non viaggia su binari diversi rispetto alla società, anzi, e il fatto che il governo americano senta la necessità di intervenire sulla questione è uno specchio della contemporaneità e di come le esigenze e le battaglie sociali cambino. Negli anni Settanta erano le donne a pretendere di essere prese in considerazione come gli uomini, oggi sono gli atleti trans a essere al centro del dibattito tra sport e pari opportunità. Una questione che non riguarda solo gli Stati Uniti e non solo il contesto scolastico, ma sul quale stanno dibattendo tutte le federazioni di diversi sport in giro per il mondo.

I diritti dei transgender nello sport

Quando Biden parla di “garantire la regolarità delle competizioni” si riferisce a un caso ben preciso, che poi è il nocciolo della questione: come considerare le persone che sono cresciute come uomini e poi hanno deciso di diventare donne? C’è il rischio che la loro struttura fisica possa costituire un vantaggio competitivo, in chiave di forza e potenza muscolare e ormonale, rispetto alle “nate donne”? È questo ciò che si chiede il governo americano e, con esso, molte federazioni. In ordine temporale, quella che ha preso una posizione più netta è stata la World athletics, la federazione mondiale di atletica leggera. Il presidente Sebastian Coe ha dichiarato che tutte le atlete trans che hanno vissuto uno sviluppo sessuale – la pubertà – come maschi saranno escluse dalle competizioni femminili, lasciando quindi la porta aperta per quelle atlete che hanno cominciato la transizione in età infantile. In precedenza, le atlete trans dovevano dimostrare di avere i livelli di testosterone nel sangue sotto una certa soglia (cinque nanomoli per litro) in modo continuativo per almeno i dodici mesi che precedono una gara – caso diverso invece è quello delle atlete intersessuali (cioè donne con caratteristiche biologiche sia maschili che femminili), come per esempio la nota velocista sudafricana Caster Semeneya.

Tuttavia, lo stesso Coe ha precisato che non si tratta di una decisione irrevocabile, comunicando la creazione di una commissione il cui compito è comprendere se effettivamente la pubertà maschile conferisca vantaggi oggettivi alle atlete trans. Una decisione quindi che non vuole discriminare qualcuno, quanto invece difendere la correttezza delle competizioni – e comunque al momento non vedrà nessuna esclusa, dato che non ci sono atlete trans nelle varie competizioni internazionali. Prima della federazione di atletica leggera, anche quella di nuoto, di rugby e di ciclismo avevano deciso di applicare la stessa formula.

Gli atleti transgender alle Olimpiadi

Le federazioni sportive mondiali – e se vogliamo tutta la società – hanno sempre ragionato su una divisione binaria tra uomini e donne, basandosi quindi su una differenza biologica e oggettiva. Lo sport ha quindi costruito così la struttura delle varie competizioni, garantendo che non ci fossero eccessive disparità in termini di capacità fisiche e muscolari. Nessuno, in passato aveva mai preso in considerazione i casi delle atlete e degli atleti trans. La società, tuttavia, negli ultimi anni ha fatto importanti passi avanti sul tema, iniziando a porre i diritti e le possibilità delle persone transessuali al centro del dibattito. Questo ha obbligato lo sport a fare lo stesso; i regolamenti e le indicazioni però soffrono un ritardo strutturale, non avendo mai preso in considerazione la questione fino a quando non è emersa a livello di opinione pubblica. Per questo ricerche scientifiche, con tutto il corollario necessario di dati e dimostrazioni, sono ancora in corso e nessuno può dire con chiarezza che aver compiuto la pubertà maschile dia effettivamente dei vantaggi competitivi alle atlete trans; un aspetto, che rientra nel discorso generale ma viene tendenzialmente preso poco in considerazione, è il caso contrario, ovvero una donna che, dopo aver cambiato sesso, partecipa alle competizioni maschili. La questione, in questo caso, attira meno attenzione perché non si ritiene che questo comporti un vantaggio competitivo.

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Laurel Hubbard alle Olimpiadi di Tokyo 2020 © Chris Graythen/Getty Images

Per molti studiosi infatti, come per esempio sostiene il dottor James Barrett, direttore della Adult gender identity clinic di Londra, che sta aiutando a condurre uno studio per il Cio (il Comitato olimpico internazionale), addirittura “le donne trans potrebbero avere degli svantaggi causati dalla loro muscolatura più pesante”, aggiungendo quindi che “non è affatto ovvio che debba esserci necessariamente un vantaggio”. Nel 2016, il Cio, il Comitato olimpico internazionale, aveva stipulato un insieme di linee guida sul tema, ponendo la centralità sull’obbligo di un intervento chirurgico ai genitali per essere ammessi alle gare, e pian piano in questi anni ha allargato sempre di più il raggio di azione delle singole federazioni, ponendo di più l’accento sul livello di testosterone. Ora questo parametro è solo uno di quelli presi in considerazione e questo ha dato alle federazioni, nei fatti, l’indicazione di valutare caso per caso.

Esempi di atleti e atlete transgender

Oltre a Caster Semeneya, che è stata forse la prima atleta internazionale ad accendere il dibattito, anche se il suo caso è diverso rispetto a quella di una “tradizionale” atleta trans, dato che si tratta di un’atleta intersessuale (cioè una donna con caratteristiche biologiche sia maschili che femminili), una delle atlete più discusse è stata Laurel Hubbard, sollevatrice neozelandese che è diventata la prima atleta trans nella storia a partecipare alle Olimpiadi, quelle di Tokyo 2020. Hubbard ha iniziato il percorso di transizione attorno ai trent’anni, dopo aver vissuto quindi la maggior parte della sua vita da uomo; per questo la sua partecipazione ai giochi era stata criticata da molte donne, che credevano che la sua presenza non garantisse la regolarità della competizione. Alla fine Hubbard ha partecipato alle Olimpiadi, venendo però eliminata praticamente subito.

In ordine temporale, il caso che sta facendo più scalpore è quello della nuotatrice americana Lia Thomas. Nata Will Thomas nel 1999, dopo aver gareggiato per anni nelle categorie maschili, nel 2019 ha iniziato il percorso di transizione sessuale assumendo bloccanti del testosterone ed estrogeni. Ha cominciato quindi a nuotare nella sezione femminile, diventando poi la prima atleta trans degli Stati Uniti a vincere un titolo nazionale. Negli Stati Uniti si parla molto di lei, soprattutto dopo che il governatore della Florida, Ron DeSantis, lo scorso marzo, non ha riconosciuto la sua vittoria in una gara nazionale, dando il primo posto alla nuotatrice Emma Weyant, arrivata in realtà seconda.

La scelta tedesca

Nel calcio, la Fifa, l’organizzazione a capo del movimento mondiale, non si è ancora espressa in modo chiaro, aspettando evidentemente di capirci qualcosa in più sul tema. Intanto, lo scorso giugno la Germania ha deciso di fare di testa sua e di applicare un proprio regolamento interno; la Federcalcio tedesca (Dfb) ha determinato che per il calcio dilettantistico e giovanile sarà possibile per le persone transgender, intersessuali e non binarie di decidere autonomamente se giocare in una squadra femminile o in una maschile. Inoltre, i calciatori transgender potranno cambiare squadra in qualunque momento del proprio percorso. In Germania quindi l’attenzione viene spostata dal tema della competitività a quello della libera autodeterminazione e della salute delle stesse atlete, tanto che viene specificato che “finché l’assunzione di farmaci non pregiudica la salute della persona interessata, la persona può prendere parte al gioco”. Sabine Mammitzsch, la responsabile federale del calcio femminile, ha commentato entusiasta la decisione, dichiarando di accogliere con favore l’introduzione di una regola nazionale sul diritto di praticare sport.

L’esempio tedesco, evidentemente diverso rispetto a quello di altre federazioni, fa comprendere come, in attesa che studi scientifici possano fare effettivamente chiarezza sul tema, il discorso su cosa sia giusto o meno fare si basi soprattutto sul conflitto tra equità sportiva e inclusione. C’è chi, come il presidente di World athletics Sebastian Coe, non ha dubbi, ammettendo di voler difendere sempre la regolarità delle competizioni anche a discapito dell’inclusività, e chi, come nel caso tedesco, mette in primo piano il diritto allo sport. L’importante è che, come sostiene Joanna Harper, corridora trans di lunga distanza britannica, “se si permette alle atlete trans di gareggiare, bisogna permettergli anche di vincere”, senza cambiare idea dopo.

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