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Nazanin e Anoosheh, i due britannici fatti prigionieri in Iran, sono tornati a casa. Il contenzioso tra Teheran e Londra è stato finalmente risolto.
Quando il volo che riportava a casa Nazanin Zaghari-Ratcliffe e Anoosheh Ashoori ha lasciato, nella tarda mattinata del 16 marzo, lo spazio aereo iraniano, i quasi quattro milioni di persone che per anni avevano preso parte agli appelli e alle mobilitazioni per la loro scarcerazione hanno tirato un lungo, emozionato sospiro di sollievo. Quello stesso sospiro di sollievo che aveva provato Nazanin, che si era fatta un selfie a bordo dell’aereo. E quando, la sera stessa, i due ex prigionieri hanno riabbracciato le loro famiglie – con la piccola Gabriella, ormai seienne, finalmente in braccio alla mamma – la commozione è stata completa.
La vicenda di Nazanin, collaboratrice di un ente benefico inglese, è nota, grazie all’impegno del marito Richard, dei suoi scioperi della fame, dei suoi sit-in di fronte alla sede del governo di Londra. Di Anoosheh è bene raccontare che, al momento del suo arresto in Iran, avvenuto nel 2017, era un semplice ingegnere in pensione. Ad accomunare la loro storia (e quella di altri cittadini con doppio passaporto, iraniano e “occidentale”, lo scrivo tra virgolette perché ce ne sono anche di australiani) è la crudele tattica delle autorità di Teheran di “fare ostaggi”, arrestando e condannando per presunti reati contro la sicurezza nazionale persone che si trovano in Iran per ragioni familiari o per motivi di lavoro, spesso accademico.
Lo scopo del governo iraniano è quello di avere delle “pedine di scambio” per trarre vantaggi diplomatici. Nel caso di Nazanin e Anoosheh, il contenzioso riguardava anche un credito vantato dall’Iran nei confronti del Regno Unito, di circa 400 milioni di sterline (475 milioni di euro), per vecchie forniture militari. Pare sia stato finalmente saldato. Restano nelle mani iraniane altre “pedine”, tuttavia. Due britannici, Morad Tahbaz e Mehran Raoof. E poi il prigioniero che sentiamo anche un po’ italiano: lo scienziato Ahmadreza Djalali, che ha trascorso anni di ricerca presso l’Università del Piemonte orientale. Arrestato nel 2016, accusato falsamente di spionaggio in favore di Israele, condannato a morte l’anno dopo e da allora in attesa dell’esecuzione, nell’isolamento del braccio della morte, senza poter contattare la famiglia in Svezia. Sua moglie, Vida Merhannia, sarà in Italia dal 6 al 10 aprile per chiedere al primo ministro Mario Draghi di sollecitare la scarcerazione di un uomo ormai con la salute a pezzi e con un cappio che gli penzola dalle parti del collo. Non è, purtroppo, una metafora.
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