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Per anni il caporalato è stato una piaga del distretto della frutta di Saluzzo. Ora qualcosa sta cambiando, tra tutele dei braccianti e nuove filosofie di produzione.
Per Livio Craveri, 33 anni, il vino non è un prodotto indispensabile. Per questo motivo fare vino non può essere fine a se stesso, ma deve lasciare qualcosa, in termini sociali e ambientali. Nel 2019 ha fondato insieme agli amici Elia e Giovanni la società agricola Braccia Rese, arrampicata sui colli piemontesi di Saluzzo, in provincia di Cuneo. E sin dal primo giorno questa filosofia ha tracciato il percorso della loro produzione. Braccia Rese coltiva uve autoctone dimenticate con il fine di rivalorizzarle. Con il progetto collaterale Craveri&Lamberti produce sidri da mele, albicocche, pesche, prugne e altra frutta iconica del territorio, ridefinendo i confini e gli schemi delle fermentazioni e dando seconda vita a prodotti danneggiati che rischierebbero di finire nel cestino. In vigna e in cantina non c’è spazio per prodotti chimici e di sintesi, così da ridurre al minimo le emissioni legate all’intero processo di vinificazione. E con il progetto “Errante”, l’azienda destina una parte dei suoi introiti a sostegno dei braccianti agricoli di origine straniera che popolano il territorio. “Si parla tanto di caporalato nel sud Italia ma lo stesso problema c’è anche nella ricca Saluzzo e si fa sempre molta fatica a parlarne. Per noi è stato naturale sin dall’inizio fare la nostra parte”, sottolinea Livio Craveri.
Nel corso dell’ultimo decennio il distretto della frutta di Saluzzo, uno dei più importanti d’Italia, è finito sulle pagine dei giornali nazionali per le difficili condizioni di lavoro e di vita dei suoi braccianti, per la quasi totalità di origine subsahariana. Ci sono state indagini, processi, condanne per caporalato. Negli ultimi anni però una rete di attori pubblici, enti sociali e aziende private ha messo insieme le forze per combattere il problema, ma anche per affermare nuovi modelli di produzione estranei ai meccanismi malati della grande distribuzione e improntati alla sostenibilità sociale e ambientale. È così che il territorio del saluzzese è diventato un caso studio, un modello. Ma la sfida non è ancora vinta.
Girando in un tardo pomeriggio di giugno per le strade intorno a Saluzzo è tutto un via vai di persone in bicicletta. Vengono per la quasi totalità dall’Africa subsahariana e tornano dal lavoro nei campi di frutta, dove è tempo del raccolto e lavorano come stagionali.
Saluzzo, in provincia di Cuneo, è una cittadina di 17mila abitanti situata nella parte sudoccidentale del Piemonte, all’imbocco della valle Varaita. È il centro principale di un distretto della frutta che coinvolge 44 comuni, il secondo più grande d’Italia, dopo quello del Trentino Alto-Adige. Nel saluzzese si coltivano mele, pere, pesche, albicocche, kiwi e altri prodotti freschi destinati perlopiù all’esportazione. La superficie totale coltivata è di circa 16mila ettari, le aziende coinvolte sono circa 5mila, i lavoratori stabili sono 7mila, a cui si aggiungono per il raccolto circa 14mila lavoratori stagionali. Come sottolinea l’associazione Terra! nel suo rapporto del 2025, “dal 2009 ad oggi i lavoratori stagionali, in particolare di origine subsahariana, sono quadruplicati. Nel 2023 a Saluzzo sono stati attivati circa 10.500 contratti, in buona parte a tempo determinato, con qualifica di bracciante agricolo. Si tratta in maggioranza di giovani uomini entro i 35 anni, in buona parte richiedenti protezione internazionale”.
Le condizioni di vita e lavoro di queste persone sono state fin dall’inizio difficili. La legge non prevede per i datori di lavoro l’obbligo di fornire un alloggio ai lavoratori stagionali, che quindi si sono ritrovati ogni anno a vivere all’aperto, in edifici dismessi o nei parchi dei vari comuni del distretto. Per lungo tempo i braccianti hanno occupato per esempio il piazzale adiacente il Foro Boario di Saluzzo, in vere e proprie baraccopoli costruite con cartoni, teli di plastica e altro materiale di fortuna. È stata la conseguenza delle paghe già di per sé irrisorie previste dal contratto collettivo nazionale, a cui si è aggiunta la diffusione di forme di lavoro irregolare.
“I datori di lavoro hanno riprodotto la narrazione dei piccoli produttori schiavi della grande distribuzione organizzata (gdo) e del gioco al ribasso che fa perdere un sacco di soldi e porta a dover tagliare i costi”, spiega Elena Pagnoni, operatrice della Caritas Saluzzo. “Questo non si è tradotto tanto in tagli nella paga, quanto nella diffusione del lavoro grigio, quindi una forma di contrattualizzazione con elementi di regolarità e irregolarità, con buste paga non trasparenti e quantitativi di giornate di lavoro dichiarate inferiori a quelle lavorate”. La grande distribuzione organizzata (gdo) è stata uno dei principali motori di sfruttamento di braccianti nel saluzzese, con il ribasso dei costi spinto all’estremo e pratiche come il “conferimento a prezzo aperto” che ha visto fissare a mesi di distanza dalla consegna il prezzo effettivo di vendita della merce, riducendo all’osso i margini di guadagno per le aziende agricole e spianando la strada a nuove spirali di sfruttamento lavorativo per abbassare i costi di produzione.
I datori di lavoro hanno riprodotto la narrazione dei piccoli produttori schiavi della grande distribuzione organizzata (Gdo) e del gioco al ribasso che fa perdere un sacco di soldi e porta a dover tagliare i costi.
Elena Pagnoni, Caritas Saluzzo
Tra le altre problematiche emerse sul territorio, la figura di intermediari che reclutano i braccianti, gestendo il lavoro nei campi e trattenendo una parte dei loro miseri stipendi. E la pratica di registrare le società con codici Ateco differenti da quello agricolo, così da impiegare i braccianti (anche) nei campi dietro contratti fittizi nell’ambito del commercio e della logistica.
Nell’ultimo decennio il distretto della frutta di Saluzzo è stato l’esempio lampante che il caporalato non è un problema esclusivo del Mezzogiorno italiano. Per lungo tempo si è provato a negare una presenza sistematica di sfruttamento illegale nelle campagne del nord Italia, ma a un certo punto ci si è dovuti scontrare con quella realtà fatta di rapporti, testimonianze, indagini, processi e perfino condanne giudiziarie.
Nel 2020, dopo anni di denunce, è partito il primo processo per caporalato nel distretto saluzzese e nel 2022 sono arrivate le condanne per Moumouni Tassembedo, accusato di aver reclutato illegalmente numerosi lavoratori di origine africana, e per Diego Gastaldi e Marilena Bongiasca, al vertice di un’azienda agricola nel comune di Lagnasco che sfruttava questi lavoratori. È stata una sentenza storica, la prima di questo tipo nel nordovest italiano, che ha obbligato a fare i conti con la realtà. Ma già da anni nel saluzzese qualcosa stava cambiando, in positivo.
Sin dai primi anni Dieci, con il crescente afflusso di braccianti di origine subsahariana, la Caritas di Saluzzo ha predisposto alcuni servizi rudimentali di sostegno legale, sindacale e abitativo. Un primo embrione di infrastruttura sociale, che si è evoluto negli anni successivi, quando anche le istituzioni pubbliche locali hanno iniziato a muoversi, soprattutto dal punto di vista abitativo. Nel 2018 il comune di Saluzzo ha trasformato un’ex caserma militare in un centro di accoglienza capace di accogliere centinaia di lavoratori agricoli, molti abituati a dormire per strada o in strutture di fortuna. Nel 2020, con la pandemia Covid-19, queste iniziative hanno subito una battuta d’arresto, poi però è stata elaborata un’altra forma di accoglienza diffusa, tuttora in vigore. “È stato firmato un protocollo d’intesa tra 11 comuni del distretto della frutta saluzzese, che si sono impegnati a fornire strutture e spazi comunali da adibire all’accoglienza di lavoratori stagionali”, racconta Elena Pagnoni della Caritas Saluzzo. Queste forme di accoglienza, che hanno messo a disposizione oltre 200 posti letto (presto saranno di più grazie ai nuovi fondi in arrivo dal Pnrr), sono state subordinate alla presentazione di un contratto e hanno visto il pagamento di quote simboliche: 1,50 euro al giorno per i lavoratori, 4,50 euro per i loro datori di lavoro, così da responsabilizzarli e favorire il radicamento di una cultura dell’accoglienza e della legalità tra tutti gli stakeholders.
La Caritas di Saluzzo, attraverso il suo progetto spin-off Saluzzo migrante, ha messo in piedi altri servizi: una mensa, da cui passano a ogni pasto circa un centinaio di persone; le docce; un deposito bagagli; un negozio di distribuzione di abbigliamento da lavoro; una ciclofficina, che ripara biciclette e le fornisce ai braccianti così che abbiano un mezzo di trasporto privato; un parcheggio per biciclette, in modo che i lavoratori agricoli a fine stagione possano lasciarvi il loro mezzo per poi ritirarlo l’anno successivo, nel caso dovessero tornare; un info-point, dove fornire supporto legale e sanitario. “Nonostante il “modello Saluzzo” sia molto decantato, i problemi restano. Le persone che dormono per strada ci sono ancora”, spiega Pagnoni. “Servirebbe pensare a soluzioni abitative non solo per i lavoratori con contratto ma anche per i lavoratori che sono nella fase di ricerca lavoro. Serve anche più sensibilità a livello sindacale del diritto del lavoro, con maggiori ispezioni, e occorre rendere più efficienti i meccanismi di incontro domanda-offerta”.
Nell’aprile 2024 Mediterranean Hope, progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, ha deciso di replicare nel distretto della frutta di Saluzzo le buone pratiche introdotte nella piana di Gioia Tauro, in Calabria. Se nel sud Italia la raccolta delle arance inizia verso ottobre e finisce a marzo-aprile, a Saluzzo la stagione inizia a giugno con i piccoli frutti e poi prosegue fino all’autunno con le mele, i kiwi e altri prodotti agricoli. Spesso i lavoratori sono gli stessi, viaggiando da un capo all’altro del paese in base alla stagionalità della raccolta.
Si parla tanto di caporalato nel sud Italia ma lo stesso problema c’è anche nella ricca Saluzzo. Eppure si fa sempre molta fatica a parlarne.
Livio Craveri, Braccia Rese
“Nella piana di gioia Tauro, in Calabria, abbiamo messo in piedi un ostello sociale dove accogliamo 40-50 lavoratori agricoli. Sono loro stessi ad averci dato l’idea: perché non fate qualcosa di simile anche a Saluzzo?”, racconta Giovanni D’Ambrosio, operatore di Mediterranean Hope. “Visto che le due stagionalità sono complementari poteva avere senso replicare quell’esperienza nel distretto saluzzese, così che i braccianti nella loro precarietà lavorativa e abitativa potessero avere un punto di riferimento anche in Piemonte”. Lo scorso agosto è stato aperto un primo appartamento per lavoratori agricoli a Verzuolo, mentre in primavera è stato chiuso un contratto di affitto di un cascinale nella zona di Revello, che può dare ospitalità fino a dieci lavoratori e vuole essere anche un punto di aggregazione e socializzazione.
Sempre nel saluzzese, Mediterranean Hope ha lanciato l’iniziativa Etika, che permette di acquistare prodotti coltivati in realtà etiche, solidali e verificate del territorio. Tra queste c’è Braccia Rese, l’azienda vitivinicola biologica arrampicata sulle colline di Busca, a pochi chilometri da Saluzzo. Nel 2022 ha dato vita al progetto “Errante”, che prevede la produzione di vino rosso da uve autoctone di Neretta Cuneese e che ora si è allargato anche al sidro, attraverso l’azienda sorella Craveri&Lamberti. Per ogni bottiglia acquistata, una parte viene destinata al progetto Saluzzo migrante della Caritas locale. “Ci sono tante persone migranti che lavorano nel territorio, che tengono in piedi il distretto della frutta di Saluzzo”, sottolinea Livio Craveri, enologo e tra i titolari delle due aziende. “Abbiamo pensato di fare qualcosa di concreto per aiutare queste persone, anche per dare un valore etico e sociale alla nostra produzione. La nostra iniziativa ha permesso di comprare molte scarpe antinfortunistiche destinate ai lavoratori agricoli. Per noi è importante che si continui a parlare dei diritti di questi lavoratori e di queste lavoratrici e che si faccia rete nella lotta al caporalato”.
La lotta al caporalato del saluzzese non passa solo dai progetti e dalle iniziative volte direttamente a tutelare i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Spostandosi nel territorio, e percorrendo spazi come la vicina Valle Varaita, ci si imbatte in nuovi modi di pensare la produzione agricola e il fare impresa, dove la serrata competizione e la guerra dei costi al ribasso della grande distribuzione organizzata vengono schiacciate dagli ideali di comunità, autoproduzione e sostenibilità ambientale e sociale.
Nel 2019 Lorenzo Barra e Pietro Cigna hanno dato vita a Cresco, una Comunità di supporto all’agricoltura (Csa) fondata su una serie di orti diffusi nei comuni di Melle, Rossana e Lemma, tra i 500 e i 900 metri di altitudine. Ogni inizio anno viene redatto un bilancio preventivo in cui si fa una stima dei costi da sostenere e della produzione agricola, che segue i principi sostenibili dell’agroecologia. Decine di famiglie versano una quota, diventando soci, che va a coprire le cassette di prodotti agricoli che riceveranno poi settimanalmente. Una forma di condivisione di rischi e opportunità da parte di contadini e cittadini, molto lontana dalle logiche di mercato che dominano la sfrenata produzione agricola circostante. “L’obiettivo non è coltivare e vendere prodotti agricoli, non è il profitto, ma autoprodursi il cibo come comunità e soddisfare le necessità e i bisogni delle persone che ne fanno parte”, spiega Pietro Cigna. “Tutto questo lo facciamo in Valle Varaita, arrivando a soci che sono anche in pianura e collaborando con altre realtà territoriali, come ristoranti e aziende agricole. Attraverso le relazioni sul territorio si può continuare a vivere queste valli e costruire un modo di vita più sostenibile e consapevole delle sfide sociali e ambientali che dobbiamo affrontare”.
L’obiettivo non è coltivare e vendere prodotti agricoli, non è il profitto, ma autoprodursi il cibo come comunità e soddisfare le necessità e i bisogni delle persone che ne fanno parte.
Pietro Cigna, CSA Cresco.
Di questa comunità fa parte anche Juri Chiotti, 40 anni, che nel 2017 ha lasciato il suo locale stellato a Cuneo per aprire Reis – Cibo libero di montagna, un ristorante oggi situato in una casa tradizionale di legno e pietra nella borgata Chiot Martin. La cucina di Reis sta in piedi grazie al suo orto e ai suoi animali, oltre che alla collaborazione con Cresco e con altri piccoli produttori della Valle Varaita. I prodotti degli orti di Cresco finiscono anche sulla tavola dell’Officina Antagonisti, a Melle. Nata come birreria nel 2012, nel tempo si è ampliata con un ristorante, una gelateria, un ostello e un albergo diffuso. “Il 70 per cento della verdura che consumiamo viene dai nostri orti, da quelli di Cresco e di un altro agricoltore locale. I vini vengono perlopiù da Braccia Rese, mentre la carne e i formaggi li prendiamo da altri produttori locali”, spiega Enrico Ponza, fondatore di Antagonisti. “Negli anni si è creata una rete di persone che si sostengono nelle rispettive produzioni. C’è chi ha aperto un ristorante, chi gli orti, chi produce linfa di betulla. Siamo una comunità che corre insieme, invece di essere in competizione”.
Un modello dove la produzione di cibo non è la porta d’ingresso allo sfruttamento e all’arricchimento di pochi, ma un modo per ottenere ricadute sociali positive e da condividere all’interno della comunità. “Ora stiamo iniziando nuovi progetti nelle borgate, vogliamo mettere piede in posti totalmente abbandonati per dargli nuova vita”, conclude Enrico Ponza. “L’obiettivo è prenderci cura del territorio, mantenere quello che c’è e dare fiato a spazi che negli ultimi decenni hanno sofferto molto in termini di spopolamento e abbandono, lavorando in sinergia”.
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