Specie aliene invasive: quanti danni provocano nei nostri mari e cosa possiamo fare per limitarli

Le specie aliene invasive hanno un enorme impatto ecologico, sanitario, economico. Ma esistono delle strategie per tenerle sotto controllo.

  • A livello globale, le specie aliene invasive provocano ogni anno danni stimati in 423 miliardi di dollari.
  • Questi calcoli sono parziali, perché soprattutto gli impatti sugli ecosistemi marini sono difficili da monitorare.
  • Nel mar Mediterraneo ci sono almeno mille specie invasive e continuano ad arrivarne di nuove.
  • Questo è uno degli ambiti di intervento della Water Defenders Alliance, coordinata da LifeGate.

Hanno avuto un ruolo nel 60 per cento dei casi di estinzione di specie animali e vegetali. In termini economici hanno un costo globale di 423 miliardi di dollari l’anno, un dato a partire dagli anni Settanta è quadruplicato ogni decennio. Stiamo parlando delle specie aliene invasive, cioè quelle che, per colpa dell’uomo, si insediano in una zona diversa rispetto a quella di provenienza, riproducendosi rapidamente a danno delle specie autoctone. I dati, impressionanti, arrivano dall’ultimo report della Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (Ipbes).

I danni provocati dalle specie aliene invasive, in numeri

Sono oltre 37mila le specie aliene invasive che l’uomo ha introdotto nelle regioni e nei biomi del pianeta. Numeri che peraltro sono destinati a essere superati piuttosto in fretta, perché se ne scoprono di nuove al ritmo di 200 all’anno. Di queste 37mila, il 37 per cento è stato identificato a partire dagli anni Settanta, in corrispondenza dell’incremento dei traffici commerciali e turistici. E 3.500 sono ritenute dannose: 1.061 piante, 1.852 invertebrati, 461 vertebrati e 141 microbi.

Per elaborare questi dati, 86 esperti provenienti da 49 paesi hanno esaminato oltre 13mila fonti, inclusi i contributi di popoli indigeni e comunità locali. Un lavoro mastodontico che descrive nel dettaglio le conseguenze dovute all’infrangersi degli equilibri naturali. Nell’85 per cento dei casi, le specie alloctone hanno un impatto negativo su quelle autoctone: finora hanno contribuito al 60 per cento delle estinzioni di specie animali e vegetali (e per il 16 per cento sono state l’unico fattore). Ma possono compromettere anche la sicurezza alimentare: è successo per esempio in India, quando il mollusco striato nero (Mytilopsis sallei) ha rimpiazzato ostriche e mitili autoctoni, fondamentali per la pesca. Altre volte, le specie invasive portano malattie infettive come la malaria, la Zika e la febbre West Nile. Dovendo tradurre tutti questi danni in termini economici, si arriva a un totale (per il 2019) di 423 miliardi di dollari.

canale di Suez
Il canale di Suez è un punto d’ingresso per le specie aliene invasive nel mar Mediterraneo © HHakim/iStockphoto

Come arrivano le specie aliene invasive nei nostri mari

Gli impatti delle specie aliene invasive rendicontati dalla letteratura scientifica riguardano nel 75 per cento dei casi gli ecosistemi terrestri, soprattutto le foreste boreali e temperate e le aree coltivate. Un altro 14 per cento degli impatti coinvolge gli ecosistemi di acqua dolce e un ulteriore 10 per cento mari e oceani. “Questo dato però si riferisce agli impatti conosciuti. Quello che avviene sott’acqua lo vediamo molto meno, quindi facciamo fatica a misurarlo”, chiarisce Agnese Marchini, professoressa ordinaria di Ecologia presso il dipartimento di Scienze della terra e dell’ambiente dell’università degli studi di Pavia.

“Il granchio blu in questo senso è un caso interessante, perché nel mar Mediterraneo c’è da decenni, ma finora era stato osservato soltanto dalla comunità scientifica. Durante l’estate del 2023 ha provocato il grosso danno economico di cui tanto si è discusso, perché si è trovato nelle condizioni ambientali ideali per una riproduzione massiccia. Ma nel Mediterraneo le specie aliene sono più di mille, di cui oltre trecento in Italia, e ne arrivano di nuove in continuazione. Non sappiamo quali diventeranno un problema, né quando”, sottolinea la professoressa Marchini.

Ma come viaggiano le specie alloctone via mare? Per esempio attraverso l’acquacoltura, da tempo oggetto di normative europee ad hoc. Oppure nelle acque di zavorra, cioè quelle che si pompano all’interno di appositi serbatoi per rendere le navi più stabili, salvo poi rilasciarle in mare durante le operazioni di carico e scarico delle merci. Su questo tema esiste una convenzione internazionale dell’International maritime organization, Imo. “Il mio dipartimento invece si occupa in particolare di un vettore che non è ancora stato gestito, né a livello europeo né a livello internazionale”, spiega Agnese Marchini. “Si tratta del biofouling, cioè degli organismi marini che si attaccano alle chiglie delle imbarcazioni. Mentre l’Imo si occupa soprattutto di grandi navi commerciali che percorrono tratte transoceaniche, il team con cui collaboro studia le piccole imbarcazioni da diporto private”.

Cosa possiamo fare per salvaguardare gli ecosistemi marini

Fin qui, abbiamo descritto il problema. Ma quali sono le possibili soluzioni? “In termini di prevenzione, bisognerebbe controllare l’accesso ai porti, permettendo l’ingresso soltanto alle imbarcazioni che hanno una chiglia perfettamente pulita. In un contesto come quello del mar Mediterraneo, però, un’ipotesi del genere è impraticabile”, chiarisce Marchini.

Una seconda strada è quella di rimuovere le specie aliene invasive in natura: è il principio per cui, nell’estate 2023, il granchio blu è comparso nei menu dei ristoranti. “Per le specie marine però questo approccio non si è rivelato efficace: magari si rimuovono gli adulti, ma in acqua restano uova e larve pronte a crescere”.

“Il terzo metodo prevede infine di lavorare sugli ecosistemi, creando condizioni meno favorevoli all’arrivo delle specie alloctone”, conclude la professoressa Agnese Marchini. “Nei porti, per esempio, le specie esotiche sono avvantaggiate perché non hanno competitori. In questo senso, aumentare la biodiversità nei porti, un po’ come piantare alberi in città, potrebbe migliorare la resistenza delle comunità native rispetto ai nuovi invasori. Con il mio team, stiamo sperimentando substrati naturali da installare nei porti, per creare un habitat più complesso in cui è più difficile insediarsi”.

C’è anche il dipartimento di Scienze della terra e dell’ambiente dell’università degli studi di Pavia, di cui fa parte la professoressa Marchini, tra i partner scientifici della Water Defenders Alliance, la coalizione per la tutela del mare lanciata da LifeGate. Grazie a questa iniziativa, aziende, persone, porti, istituzioni, mondo della ricerca e cittadini possono contribuire all’adozione di soluzioni concrete per tre grandi problemi ambientali: la presenza di rifiuti di plastica, l’inquinamento da idrocarburi e la fragilità degli habitat marini. Per saperne di più: https://waterdefenders.it/

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