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A Torino, la bottega dei prodotti delle carceri: belli, buoni e giusti

Nel cuore di Torino ha aperto uno spazio permanente dove sono commercializzati i prodotti realizzati dai detenuti negli atelier delle carceri di tutto il Paese.

I dolciumi di Dolci Evasioni, le borse delle MaleFatte o ancora le magliette stampate di O’press. Basta una breve incursione nel concept store di Freedhome, una nuova bottega aperta in centro a Torino a fine ottobre 2016, per avere due conferme: in Italia c’è un gran talento per l’artigianato e un incredibile senso dell’umorismo… persino in prigione. Freedhome infatti non è un negozio come gli altri ma il primo spazio dedicato ai prodotti fabbricati dai detenuti delle carceri italiane.

Eccellenze artigiane che non ti aspetti

Aggirarsi fra gli scaffali (reali ma anche virtuali) di Freedhome è come fare un viaggio in un universo d’artigianato d’eccellenza che non ti aspetti. Quello delle tredici tredici cooperative sociali presenti con atelier di lavoro in altrettante carceri della penisola che insieme formano la rete Freedhome. Ma anche di altre realtà esterne alla rete. Ci sono i cosmetici realizzati a partire da piante coltivate in un orto biologico dalle donne del carcere femminile della Giudecca. I panettoni Giotto, sfornati dai pasticceri della casa di reclusione Due Palazzi di Padova. O ancora i già citati dolcetti biologici della Banda Biscotti, cucinati da otto detenuti del Carcere di Verbania, talmente buoni da trovare spazio persino sugli scaffali di Eataly. Oltre 25 prodotti fra artigianato a alimentari, ognuno con una storia diversa raccontare ma un punto in comune: la voglia di riscatto.

Gioco di squadra all’ombra della Mole

La bottega è il risultato della collaborazione fra il Comune di Torino, proprietario dello spazio concesso in comodato d’uso al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, la Garante comunale per i diritti dei detenuti Monica Cristina Gallo che l’ha scelto per questa iniziativa e Freedhome. Già nel 2015, in occasione delle feste di fine anno, lo spazio di via Milano 2/c era stato utilizzato per accogliere una vetrina temporanea di prodotti dalle carceri. Poi l’idea di farne un’iniziativa permanente, anche col sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo, e il via a tre mesi di lavori, affidati a quattro detenuti del carcere di Torino coordinati da due agenti penitenziari. Oggi la bottega è gestita da personale di Extraliberi, membro torinese della rete Freedhome, ma sarà presto affidato alle cure di un detenuto che verrà a lavorarci tutti i giorni.

Lavoro nelle carceri: le cifre di un fenomeno poco conosciuto

Secondo gli ultimi dati del ministero, relativi al giugno del 2016, su 54.072 detenuti presenti nelle carceri italiane, solo 15.272, ossia meno di un terzo, svolgono un’attività lavorativa. Per giunta, fra questi, poco meno di 13.000 sono impiegati dalla stessa amministrazione penitenziaria, principalmente per svolgere semplici mansioni all’interno del carcere. A praticare una reale attività professionalizzante sono quindi poco più di 2.300 detenuti. Di questi, la metà lavorano fuori dal carcere, gli altri in atelier all’interno del carcere gestiti da cooperative sociali come quelle di FreedHome e, in misura minore, da imprese private. Sul sito del ministero della Giustizia esiste una vetrina virtuale delle loro produzioni. Quanto profilo dei detenuti che lavorano non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (all’esterno o negli atelier), si nota anzitutto che le donne sono solo 172 di cui la metà di origini straniere. I detenuti di origine straniera rappresentano invece meno di un quarto dei detenuti maschi che lavorano in cooperative o imprese. Quanto alla distribuzione geografica, Lombardia (665) e Veneto (359) guidano la classifica seguite da Campania (217) e Toscana (207).

Un obbligo costituzionale, un investimento in sicurezza

Un articolo non certo fra i più noti della nostra carta costituzionale recita: “Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”. Detto in altri termini, la prigione non è un “deposito di detenuti” ma un luogo in cui lavorare al loro reinserimento nella società attraverso educazione, formazione e… lavoro. L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario individua in effetti il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa. Un eccesso di benevolenza da parte dello Stato nei confronti di chi ha violato le sue leggi? Al contrario, un ottimo investimento per la sicurezza dei suoi cittadini. In Italia infatti, il tasso di recidiva è del 70%, il che significa che più di un detenuto su due finisce per tornare dietro le sbarre una volta scontata la sua pena. Ora, l’esperienza ha mostrato che il tasso di recidiva si riduce drasticamente fra i detenuti che hanno svolto un’attività lavorativa durante la loro detenzione, con un conseguente risparmio per la società. Lo mostrano le statistiche della cooperativa Giotto, quella dei panettoni: 2-3% di recidiva. Lo confermano le analisi dell’Osservatorio nazionale sulle imprese sociali di Isnet: in un anno, l’attività lavorativa dei detenuti ha generato impatti benefici per la società stimati in 46 milioni euro a fronte di 24 milioni di euro di investimenti.

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