
Secondo il primo studio a indagare le cause del crollo della Marmolada, costato la vita 11 persone, l’evento è dovuto in gran parte alle alte temperature.
A dodici mesi da una delle più violente tempeste che hanno colpito le aree montane del Nord Italia, gli sforzi profusi hanno permesso di far fronte a un evento che ha messo a dura prova la montagna. E non mancano le proposte e i progetti per far rinascere questi boschi.
È ormai passato un anno da quando Vaia ha spazzato parte dei versanti di queste montagne. Ma il ricordo qui è ancora vivissimo: ci sono gli alberi rimasti a terra a fare da monito. Nonostante le province maggiormente colpite abbiano lavorato ininterrottamente durante tutto l’anno, molto resta ancora da fare, non solo per raccogliere tutto il legname. Ma per ridare vita ai boschi che sono scomparsi, spazzati via da quel vento che la notte del 29 ottobre soffiò oltre i 200 km/h e che colpì tutto il Triveneto e parte della Lombardia. Una tempesta arrivata da un mar Adriatico insolitamente caldo che ha scaricato tutta l’energia accumulata incanalandosi in valli e pendii.
I danni sono più o meno noti, anche se non si hanno numeri certi. Si son fatte delle stime: 42.800 ettari colpiti, la maggior parte tra Trentino Alto Adige e Veneto (da soli raggiungono l’80 per cento della superficie boschiva colpita). In tutto si sono calcolati circa 8,5 milioni di metri cubi di legname, ovvero sette volte la quantità lavorata annualmente in Italia. Un’enormità che ha messo l’intero settore in difficoltà, sia per l’eccessiva disponibilità di legno, sia per la limitata capacità della filiera di fare fronte a questi numeri, evidentemente eccezionali. L’aumento dell’offerta ha poi causato un crollo dei prezzi, stimati in 174 milioni di euro.
Bisogna passarci da queste parti per capire veramente cos’è successo. Non bastano le immagini o le riprese aeree. Il paesaggio in alcune zone è cambiato, per sempre. Interi versanti boschivi non ci sono più, come i sentieri. Anche se il Cai ha lavorato senza sosta per sistemare tutta la sentieristica e renderla già praticabile – salvo casi eccezionali – durante l’estate. Secondo gli esperti ci vorranno almeno 60-70 anni perché i boschi tornino allo stato antecedente la tempesta.
Già nei primi momenti del dopo Vaia, risultò evidente come la mossa più urgente da fare, fosse rimuovere quanto prima la gran parte del legname. Un’azione urgente per evitare il diffondersi di parassiti e malattie e aggravare il rischio di dissesto idrogeologico. In Veneto la superficie boschiva colpita è stata di 20mila ettari con 3 milioni di metri cubi di legname abbattuto. “Il 90 per cento del legname è stato venduto, ma molti tronchi non possono essere rimossi perché devono fungere da difesa paravalinghiva”, dice il governatore della Regione e commissario Luca Zaia durante la presentazione dei risultati dei lavori. “Una volta tolti i tronchi, nella prossima stagione si potranno realizzare le opere di protezione”.
La provincia di Bolzano è forse quella che ha raggiunto i risultati migliori vedendo i dati presentati nella sesta relazione sulla tempesta Vaia. In tutta la provincia di Bolzano la superficie interessata dagli schianti ammonta a 5.918 ettari, pari all’1,7 per cento dell’intera superficie forestale della provincia. Si tratta per lo più di abeti rossi e abeti bianchi, oltre a larici e cirmoli. Un anno dopo quella notte, secondo quanto contenuto nella sesta relazione della Ripartizione foreste, sono stati sgomberati circa 1.100.000 metri cubi di legname cioè più del 70 per cento della massa stimata.
Secondo il Consiglio dei dottori agronomi e forestali (Conaf) il ripristino della copertura forestale, il rimboschimento tramite piantagione o la semina, troverebbero giustificazione solo in casi definiti e limitati, essendo da preferire la rinnovazione naturale, per motivi economici ma anche di sostenibilità complessiva. “Il bosco dovrà essere lasciato per gran parte in libera evoluzione, così da creare un ecosistema più vario rispetto a quello dominato dall’abete rosso. Dove invece interverrà l’uomo, la scelta delle specie da utilizzare dovrà considerare la vegetazione potenziale, le condizioni stazionali attuali, la stabilità del nuovo bosco e i possibili futuri assetti climatici, probabilmente indirizzando la scelta su specie più adatte a sopportare un clima diverso da quello a cui siamo abituati”, spiegano in una nota.
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Ci sono poi progetti ancora in fase propositiva ma estremamente interessanti dal punto di vista delle nature-based solutions (soluzioni basate sulla natura), come quello presentato a Belluno durante il convegno “Un anno da Vaia. Buone pratiche e opportunità di sviluppo”, organizzato dalla Fondazione Giovanni Angelini in occasione della rassegna Oltre le Vette 2019. “L’idea è quella di far collaborare aziende private, con fondazioni ed enti pubblici per ricostituire i boschi, dando però un reddito ai proprietari dei boschi nell’immediato”, spiega Massimiliano Fontanive del Centro Pian Cansiglio. “Si tratta di dare in concessione ad un privato, in questo caso Rigoni di Asiago, le aree da riforestare piantando specie mellifere e frutti di bosco (per fare miele e marmellate) insieme agli alberi. Quando il bosco sarà ricostituito, il privato riconsegnerà i terreni al proprietario che potrà continuare a trarne del reddito”. Un’iniziativa che permetterà di garantire un reddito a breve termine ai proprietari di quei terreni dove i boschi oggi non esistono più.
Se è vero che è dalle grandi crisi che avvengono le grandi rinascite, Vaia non può che essere il vero banco di prova, per ridare voce e forza ad una comunità, quella montana, che troppo spesso diamo per scontata e che invece resiste, guardiana di questi luoghi unici al mondo.
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