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Il 2008 è l’anno su cui si concentra la terza puntata del podcast Venticinque. Il protagonista, questa volta, è l’artista ferrarese Vasco Brondi.
La terza puntata del podcast Venticinque di LifeGate e Rockit fa tappa a Ferrara, da cui nel 2008 Vasco Brondi si impose come cantante generazionale senza alcuna intenzione di diventarlo. Un viaggio nella sua città e nella sua musica, alternativa a tutto e a tutti.
Korova Milk Bar, via Croce Bianca, Ferrara. È partita da qui la carriera di Vasco Brondi, l’unico artista al mondo che abbia sciolto una band composta unicamente da se stesso. Da quel bancone prende il via anche il terzo episodio di Venticinque, scritto da Dario Falcini, Giacomo De Poli e Marco Rip. Perché in questo locale, gestito dai suoi fratelli, il musicista un tempo noto come Le luci della centrale elettrica, ha svolto il suo ultimo lavoro prima di decidere che non intendeva prevedere alcun piano B rispetto alla musica, perché questa è stata la palestra per sfidare la sua timidezza (“hai gli occhi di tutti addosso, devi parlare a voce alta: tutte cose che poi servono sul palco”), perché qui ha imparato molte delle cose e conosciute molte delle persone su cui ha costruito tutta la sua narrativa. Quella “provincia sonica” che ora ritorna, quasi vent’anni dopo, nel suo ultimo potentissimo singolo, Va dove ti esplode il cuore, con cui Brondi ha iniziato una collaborazione con un’etichetta prestigiosa come Carosello Records, dopo una vita da indipendente nel vero senso della parola. Un pezzo che è quasi la trasposizione in musica del lungo e personalissimo racconto che sentirete nei 40 minuti di questa puntata di Venticinque, che trovate su tutte le piattaforme di streaming.
“Mi piacciono i brindisi classici, tipo ‘Alla nostra’. Anche se non ho mai capito a cosa si riferisca”, esordisce Vasco. “Quando i miei fratelli hanno aperto questo bar sono venuto qua a dare una mano. L’ho fatto per sette anni, ogni sera dell’anno. Solo che facevo schifo a fare da bere: ogni tanto arrivava qualcuno e mi chiedeva un americano, ma solo se lo faceva mio fratello, altrimenti andava benissimo una birra”. Nel riavvolgere il nastro si arriva presto al 2008, l’anno in cui tutto è cambiato. E quello al centro di questa nuova puntata della nostra serie di audio-documentari, dopo il 2019 con Massimo Pericolo e Levante per il 2013. Fino ad allora Vasco aveva realizzato un demo, che non riusciva mai a portare live fuori dai confini della provincia di Ferrara. Mi ero trovato a suonare da solo non per scelta, ma per sfiga. A Ferrara non cantava nessuno in italiano, io urlavo e avevo questa chitarra acustica con cui andavo sempre fuori tempo. Mi ero fatto il vuoto attorno”.
Solo un pazzo poteva affiancarlo, insomma. Uno come Giorgio Canali. Chitarrista e produttore, leggenda del rock alternativo italiano, lo vide suonare per la prima volta a un primo maggio molto spartano a Gambulaga e lo invitò a registrare un disco a casa sua, dove sono nate produzioni importantissime per la scena underground italiana. Il racconto che Vasco fa di quei giorni fa molto, molto ridere. “C’era un letto matrimoniale e un’asta con un microfono nella stanza. E tanti mozziconi di sigaretta”. La voce di Giorgio Canali, inconfondibile come la sua risata, irrompe nel nostro racconto. Per rievocare un tour sgangherato quanto mitologico, quello che i due fecero assieme all’inizio dell’esperienza delle Luci, tra cachet “minimali”, bevute copiose e notti insonni a seguire Valentino Rossi. “Volevo fare queste date con Vasco perché pensavo avesse bisogno di qualcuno che gli dicesse cosa non fare, non sono riuscito a insegnargliene una ovviamente. Ma lui aveva un discorso che arrivava direttamente al cuore della gente: non si trova in giro spesso questa cosa, è preziosa”.
Il rapporto tra i due è di una tenerezza del tutto punk. “Giorgio si vantava di non aver mai lavorato un giorno in vita sua, perché la musica non è lavoro, secondo lui”, spiega Vasco Brondi, mentre ci siamo spostati nella cameretta dell’appartamento che è stato lo studio di registrazione di buona parte dei suoi dischi. “Eppure quando gli dissi che mi ero licenziato dal bar per suonare e basta si è incazzato, era seriamente preoccupato. Ma per me, come detto, era fondamentale chiudermi tutte le vie alternative”. Vasco ci suona un paio dei suoi pezzi storici, con una chitarra che ne ha passate parecchie. Parliamo del suo successo, che nessuno allora poteva davvero aspettare e che invece arrivò assordante in quegli anni di intorpidimento musicale (e non solo). “Io non avevo idea delle cose che funzionavano, per questo facevo musica diversa da tutti. Allora c’erano Canadians, Yuppie Flu, Giardini di Mirò. Arrivai con lo sporco degli anni ’90, che in quel momento sembrava me lo fossi inventato io. Era una rielaborazione di una cosa che c’era stata, e alla grande, in Italia, però colpì l’attenzione di tutti”.
Gridava perché ci credeva davvero, spiega Vasco Brondi a Venticinque. “Allora si stava insediando un’estetica del carino, tuttora vigente per altro. Non bisognava prendere le cose troppo sul serio, ma farle un po’ così, con ironia, facendo un po’ l’occhiolino. Invece per me la regola è quella di Andrea Pazienza: viscere sul tavolo”. La sua disperazione non era però tristezza, come molti hanno erroneamente detto. “Pensavo al contrario ‘tristi siete voi’. Che criticate invece che creare. Io sono vivo, e do fuoco a tutto quanto”. Un’altra voce entra in scena, quella di Daria Bignardi, ferrarese come Le luci, sua estimatrice e prima a invitare l’artista in tv ai tempi delle Invasioni barbariche. “Il mio primo ricordo delle luci della centrale elettrica non è connesso a Vasco, lui è arrivato dopo”, racconta. “Io ho visto le luci ‘vere’, che provenivano da quella cattedrale che era la Montedison, un mostro che noi ferraresi conoscevamo bene, e che amavamo e odiavamo allo stesso tempo. Ho sempre sentito il suo progetto molto vicino alla mia sensibilità e apprezzo la sua capacità di raccontare gli anni zero e certe radici emiliane”.
Dalla camera-studio di Vasco ci spostiamo, per la passeggiata che conclude questa terza puntata di Venticinque. Percorriamo via delle Volte, dove un tempo c’erano i bordelli e i primi transessuali della città, arriviamo davanti al cinema Mignon, cinema porno e al contempo oratorio, un posto senza senso e decisamente magnetico. Poi ci salutiamo. Contenti di aver condiviso un pezzo di una “rivoluzione personale” che, per definizione, non potrà finire mai.
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