Il modello Walmart: l’unico modo per uscire dalla crisi è abbassare i salari

L’area euro-atlantica, e gli Stati Uniti in particolare visti i poderosi mezzi della Federal Reserve, sono la migliore cartina di tornasole per verificare l’efficacia delle misure macroeconomiche per sostenere l’industria, l’occupazione e il benessere.   C’era un’epoca, dal dopoguerra fino agli anni Settanta, nella quale le condizioni dei cittadini di tutte le fasce di reddito

L’area euro-atlantica, e gli Stati Uniti in particolare visti i poderosi mezzi della Federal Reserve, sono la migliore cartina di tornasole per verificare l’efficacia delle misure macroeconomiche per sostenere l’industria, l’occupazione e il benessere.

 

C’era un’epoca, dal dopoguerra fino agli anni Settanta, nella quale le condizioni dei cittadini di tutte le fasce di reddito – poveri, classe media e ricchi – miglioravano ogni anno. Poi, come denunciato in un recente articolo di Harold Meyerson, columnist del Washington Post, “all’improvviso tutto cambiò”.

 

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E non solo per la crisi del petrolio, bensì per il venir meno degli equilibri delicati che da sempre avevano regolato i rapporti tra grande industria, sindacati e lavoratori. La ricchezza ha smesso di essere “redistribuita”, come auspicavano i grandi capitalisti americani della prima metà del secolo scorso, secondo i quali, per citare il presidente della Standard Oil of New Jersey/Exxon “il compito del management dev’essere mantenere un equilibrio giusto e funzionale tra gli interessi degli azionisti, dei dipendenti, dei clienti finali e dell’opinione pubblica”. Da metà anni Settanta, infatti, la produttività americana è aumentata dell’80 per cento, ma la retribuzione media solo dell’11 per cento, e il trend si è mantenuto anche negli ultimi decenni: dal 2000 a oggi, + 18 per cento di aumento di produttività, e salari medi addirittura diminuiti del 12,4 per cento. Perché? La risposta è in quello che alcuni osservatori definiscono “walmartizzazione” dell’economia. In cosa consiste questo modello?

 

Già nel 1962, il fondatore di Walmart, Sam Walton, pagava i suoi dipendenti la metà del salario minimo obbligatorio per legge. La legge del salario minimo valeva solo per le aziende con più di 50 dipendenti, e lui per aggirarla tentò di sostenere che ogni suo negozio era “un’azienda a sé stante”. Perse la vertenza con il dipartimento del Lavoro, ma questa sua impostazione del rapporto con i dipendenti pare costituire tutt’ora la “cifra” del più grande datore di lavoro privato del mondo, con oltre due milioni di dipendenti: nel commercio al dettaglio gli stipendi pesano mediamente il 10 per cento sulle vendite, i manager Walmart hanno mandato di comprimere questa voce di costo tra i 5 e l’8 per cento; dopo l’arrivo di un negozio Walmart in una contea, tutti i salari medi di abbassano; Walmart come principale commerciante al dettaglio negli Stati Uniti, impone i propri prezzi a tutta la catena di fornitura, riducendo molto i margini di utili e quindi obbligando anche i fornitori a pagare meno i dipendenti, se vogliono sopravvivere; non pochi dipendenti Walmart lavorano formalmente per agenzie di lavoro interinale, senza garanzie sindacali, anche se fanno lo stesso lavoro da anni; quando i dipendenti di un magazzino Walmart in Canada hanno votato per aderire al sindacato, l’azienda semplicemente ha chiuso il negozio; quando i macellai di un punto vendita Walmart hanno espresso la medesima intenzione, Walmart ha chiuso la macelleria di quel punto vendita e – per dare un buon esempio? – in tutto il Texas e nei sei stati confinanti.

 

A detta dei detrattori di Walmart, queste circostanze rendono l’idea delle politiche aziendali del colosso della grande distribuzione, orientate in via esclusiva alla massimizzazione del profitto per gli azionisti. La cosa curiosa però è che a un aumento della redditività degli azionisti, costante negli ultimi decenni negli Stati Uniti, non corrisponde affatto un parallelo miglioramento degli indici macroeconomici generali: fondamentalmente, la classe media non ha più il denaro per acquistare i beni che le industrie stesse producono, e questo, nel medio-lungo termine, non è nell’interesse stesso degli azionisti delle aziende manifatturiere, i quali però faticano a comprendere che questa strategia finisce per assottigliare la loro stessa base di clientela.

 

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L’elevatissima “mobilità” dei manager non aiuta: “Se tra due anni sarò a lavorare per un’altra azienda che mi pagherà di più, perché dovrei preoccuparmi del vero interesse per i miei attuali azionisti nel lungo termine? Meglio ottimizzare i miei bonus ora”, pare essere il mantra del top management americano.

 

Eppure esistono modelli differenti. I colossi dell’industria tedesca (Daimler, Siemens, Basf, per citarne solo alcuni) sono presenti su tutti i mercati, ma salari e benefit sono almeno di un terzo più alti di quelli in vigore negli Stati Uniti; la formazione professionale in Germania è ai primi posti delle preoccupazioni del management, mentre in Usa è quasi totalmente ignorata; in Germania, ogni azienda con più di mille dipendenti ha nel Consiglio di amministrazione – per legge – un egual numero di rappresentanti dei dipendenti rispetto a quelli degli azionisti, cosa inimmaginabile negli Stati Uniti. Eppure queste aziende guadagnano egualmente, distribuiscono importanti dividendi ai loro azionisti, e la Germania ha un surplus commerciale enorme, a fronte del deficit della bilancia commerciale americana che è il più alto del mondo.

 

E la Germania non è ovviamente l’unico caso di modello che funziona, opposto a quello statunitense. Il Gruppo Ferrero, colosso dolciario italiano, ha basato il proprio modello di business in senso esattamente opposto a Walmart: “coccola” i propri dipendenti con stipendi più alti della media di mercato, e li segue in ogni loro esigenza anche dopo il pensionamento. Le iniziative sociali e culturali sono così numerose da non essere elencabili, e ci sono addirittura dei piccoli furgoni che portano la spesa a casa di quegli ex-dipendenti anziani a mobilità ridotta. “Siamo come una grande famiglia”, ha più volte esclamato il patron dell’azienda, Michele Ferrero, recentemente mancato. L’azienda è tra le prime dieci al mondo nel suo settore, con oltre otto miliardi di euro di fatturato, il marchio è stato indicato da una ricerca indipendente come “il più affidabile al mondo”, ha ricevuto innumerevoli premi per la qualità dell’ambiente di lavoro, e contemporaneamente i dividendi dell’attività industriale sono stati tali, negli anni, da fare di Michele Ferrero il trentesimo uomo più ricco al mondo, con un patrimonio personale di oltre 24 miliardi di euro. Eppure i suoi dipendenti lo ammiravano e lo rispettavano, non lo “odiavano” o lo “invidiavano”.

 

Anche nelle Pmi vi sono moltissime storie di eccellenza: Guna S.p.a. è l’azienda leader in Italia nella produzione e commercializzazione di farmaci naturali e di origine biologica. “E’ un bel posto dove lavorare”, afferma Antonella Zaghini, “storica” capo segreteria di presidenza, in azienda da prima della sua fondazione: “Camminavo per strada e vidi un cartello, cercavano un’apprendista con funzioni amministrative. Sono ancora qui oggi, dopo 30 anni, come tanti colleghi: il turnover è basso, da noi se sei in Guna da dieci anni non dico che sei un novellino ma quasi. Entrano sempre nuovi assunti, energie fresche, ma è abbastanza raro che una persona si licenzi prima della pensione”. Anche in questo caso, gli azionisti incassano un robusto dividendo, in quanto il giro d’affari è sempre positivo, da un trentennio a questa parte, e l’azienda ha espanso il suo business fino a distribuire i propri farmaci in 29 paesi del mondo.

 

Queste realtà, Daimler, Siemens, Basf, Ferrero, Guna, ma potremmo citare anche aziende in altri paesi, paiono smentire nettamente l’affermazione di Jack Welch, all’epoca amministratore delegato del colosso americano General Electric, che in una convention per gli azionisti al Pierre Hotel di New York, disse: “La fedeltà all’azienda è una sciocchezza”. Sono i numeri stessi – tanto cari al pragmatismo americano – che la contraddicono, come ci ricorda anche una bella ricerca della Harvard University che conferma che le aziende più attente alla soddisfazione di tutti i loro pubblici sono anche quelle che sul medio-lungo periodo garantiscono un maggiore incremento del valore per gli azionisti.

 

Gli Usa non sono solo le loro banche e la loro borsa: sono tutta la nazione, è ciò include sia gli imprenditori che i dipendenti. Le correlazioni tra benessere generale della popolazione, soddisfazione dei dipendenti, successo a lungo termine delle aziende e ricchezza degli imprenditori, sono strettissime: è la scienza stessa a dimostrarlo. Forse per Walmart è troppo tardi per capirlo. Ma – per fortuna – il modello Walmart non è l’unico vincente al mondo.

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