Si potrebbe dire che il tempismo delle Nazioni Unite nel proclamare il 2025 come l’anno internazionale per la tutela dei ghiacciai sia stato eccezionale. Non è ancora iniziata la stagione della fusione incontrollata, dei ruscelli pieni di acqua lattiginosa che corre veloce verso valle, dei crepacci esposti alla radiazione solare e dello zero termico che schizza sopra la cima del monte Bianco, eppure abbiamo già assistito allo spaventoso crollo di un ghiacciaio che ha seppellito un intero paese. Il 27 maggio Blatten era un piccolo comune del Canton Vallese, in Svizzera, che ospitava meno di trecento anime. Il giorno seguente, ha cessato di esistere geograficamente, sepolto da tonnellate di roccia, ghiaccio e detriti.
Cosa è successo
Una grande porzione del ghiacciaio Birch, alla cui ombra e al cui cospetto sorgeva il villaggio di Blatten, si è staccata alle 15:30 del 28 maggio. Il fenomeno, per fortuna, non è arrivato inatteso. Il ghiaccio era un sorvegliato speciale già da settimane e l’aggravarsi della situazione aveva spinto le autorità ad evacuare la zona, temendo il peggio.
Nei giorni precedenti al crollo, il ghiacciaio stava infatti avanzando verso valle di circa dieci metri al giorno come risultato di una dinamica franosa iniziata nel mese di maggio. È normale che i ghiacciai si muovano, lo fanno perché la forza di gravità agisce sulle grandi masse di ghiaccio, ma in questo caso si tratta di una velocità molto elevata.
Il versante del Kleins Nesthorn che si affaccia sulla Lötschental era monitorato dai ricercatori da tempo: per anni aveva dato luogo a crolli e colate, fenomeni superficiali che però hanno portato ad un accumulo di materiali sul ghiacciaio sottostante (il Birch). A partire dalla metà del mese di maggio, la situazione era cambiata perché la dinamica di smottamento è passata a coinvolgere il versante in profondità, portando a un vero e proprio sconvolgimento della topografia della montagna tra il 19 e il 20 maggio. Un volume di roccia stimato in milioni di metri cubi si è spostato vistosamente, determinando un abbassamento di un intero settore di cresta di quasi cento metri e l’accumulo di tonnellate di materiale sul ghiacciaio. La pressione della frana sul ghiacciaio ne ha determinato il rapido spostamento verso valle per giorni, fino all’evento catastrofico del 28 maggio, quando una porzione enorme di esso si è staccata, iniziando la sua corsa verso il fondovalle.
Un pericolo dopo l’altro
La pronta evacuazione della zona al momento del bisogno ha fatto sì che questo disastro risultasse nel seppellimento di un intero paese, di infrastrutture, beni, ricordi, ma non di persone. Possiamo quindi tirare un sospiro di sollievo? Purtroppo, non ancora. Il sorvegliato speciale, ora, è il fiume Lonza, che scorre (o scorrerebbe) sul fondovalle. L’enorme massa di detriti del crollo ha infatti bloccato il suo corso, determinando la formazione di una sorta di lago in corrispondenza del sepolto Blatten, ritenuto molto preoccupante dagli amministratori del territorio e dagli esperti per il rischio di eventuali alluvioni a valle del neonato lago e della frana. Le notizie che arrivano dalla Lötschental nelle ultime ore raccontano che il fiume è riuscito a farsi strada tra i due chilometri di detriti, e che l’invaso artificiale che si trova lungo la sua corsa verso valle è stato svuotato per accoglierlo e per scongiurare danni ulteriori. La situazione evolve rapidamente, e con essa il rischio a cui gli abitanti della valle sono esposti.
Il collante delle Alpi
In casi rumorosi e importanti come questo prendersi un momento per fare ordine e ascoltare gli esperti è fondamentale, anche se nella nostra mente la connessione tra questo disastro e i cambiamenti climatici è ormai quasi automatica.
Che il riscaldamento globale abbia innumerevoli e sostanziali impatti sulle terre alte è innegabile: dalla degradazione del permafrost al ritiro dei ghiacciai, le montagne si stanno letteralmente sgretolando al di sopra delle nostre teste. Il permafrost, infatti, è quella che si può definire la “colla” delle montagne, uno strato formato da ghiaccio, roccia e suolo che mantiene una temperatura pari o inferiore a 0°C e che tiene – letteralmente – insieme le regioni di alta montagna e polari.
Quello che sta succedendo al permafrost delle montagne alpine in questo secolo lo descrive uno studio pubblicato qualche mese fa su Nature, che racconta come le temperature del permafrost nelle regioni montane europee stiano aumentando molto rapidamente. Quando il permafrost si degrada a causa delle temperature superiori allo zero, destabilizza non solo la superficie: l’acqua si infiltra e penetra nelle fessure e nelle crepe aperte. L’aumento della pressione dell’acqua provoca l’apertura di nuove fessure e l’acqua penetra ancora più in profondità nel substrato roccioso, in un ciclo che si autoalimenta e indebolisce la montagna dall’interno.
La connessione tra i cambiamenti climatici e le frane proprio nelle Alpi svizzere è stata investigata e approfondita da un team di ricercatori dell’Istituto “Impatti e rischi dei cambiamenti climatici nell’Antropocene” di Ginevra, che ha dimostrato che il degrado del permafrostcontribuisce all’instabilità dei pendii e alla caduta massi. I risultati dello studio, pubblicato l’anno scorso su Nature, sono stati ottenuti grazie a tecniche paleoclimatiche e a una serie temporale continua dal 1920 al 2020 dell’attività di caduta massi a Täschgufer.
Sebbene la connessione tra l’instabilità dei pendii e il riscaldamento globale sia evidente e dimostrata scientificamente, è anche vero che nel caso di eventi di grande portata, come quello che si è realizzato pochi giorni fa a Blatten, è bene avere pazienza e lasciare agli esperti il tempo di fare le dovute analisi e di tenere conto di tutte le variabili in gioco (come si era fatto in Italia nel caso del crollo della Marmolada a luglio 2022).
Tracciare un collegamento diretto tra l’aumento delle temperature e frane di queste proporzioni può essere infatti prematuro, essendoci altre variabili geologiche da considerare nell’equazione. In particolare, come hanno spiegatoDaniel Farinotti e Christophe Lambiel, ricercatori e docenti universitari specializzati nello studio del permafrost e dei ghiacciai, non si sa ancora se a scatenare il crollo siano stati fattori esterni o reazioni interne al ghiacciaio. Il tempo, e le analisi degli esperti, ci aiuteranno a ricostruire con precisione le cause di ciò che è successo.
Come si abita una montagna che frana sulle nostre teste
In attesa del verdetto dell’”autopsia” di questo disastro, rimane il fatto che l’instabilità delle terre alte mette i loro abitanti di fronte a nuove e complesse sfide. Come possiamo, quindi, evitare di arrivare impreparati? Immagini satellitari, radar e sensori installati nel suolo permettono oggi di monitorare con grande precisione i movimenti del terreno lungo i pendii montani. Quando identificano anomalie, i sistemi di allerta possono attivarsi in tempo utile, consentendo alle autorità di mettere in sicurezza le aree interessate. In questo senso, la Svizzera rappresenta un Paese all’avanguardia nel monitoraggio dell’arco alpino: il suo sistema si basa su una stretta collaborazione tra enti decisionali, aziende specializzate in tecnologie di rilevamento avanzato e il mondo della ricerca, che si occupa di testare e validare costantemente nuovi strumenti.
Inoltre, quando i fenomeni instabili sono noti e sotto osservazione, è possibile mettere in atto misure di prevenzione efficaci: barriere in cemento armato, argini e altri interventi di ingegneria naturalistica possono offrire protezione a insediamenti esposti al rischio di alluvioni o colate detritiche. Tuttavia, laddove i volumi di materiale in movimento sono molto elevati o si trovano in zone difficilmente accessibili, l’intervento diventa complesso, sia dal punto di vista tecnico che economico.
I pericoli determinati dai cambiamenti climatici nelle Alpi
I cambiamenti climatici stanno introducendo nuovi rischi nelle regioni montane, che si sommano a quelli già noti. La fusione accelerata dei ghiacciai e il degrado del permafrost compromettono la stabilità dei versanti e aumentano la frequenza di frane e colate detritiche. L’aumento delle temperature e le modifiche nel regime delle precipitazioni favoriscono la proliferazione di parassiti come il bostrico tipografo, che sta devastando da anni le foreste di diverse regioni alpine. A questi si aggiungono eventi meteorologici estremi destinati a diventare sempre più frequenti, come violente tempeste e periodi di siccità prolungata. Di fronte a questo scenario in rapida evoluzione, diventa fondamentale e urgente sviluppare strategie di adattamento e pianificazione territoriale che considerino l’interconnessione tra questi fenomeni, per garantire la sicurezza delle comunità montane e la resilienza degli ecosistemi alpini, da cui, in realtà, dipendiamo tutti.
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