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Ridurre la lavorazione del terreno favorisce l’integrità del suolo, scongiura l’erosione e contiene il ricorso alle macchine e ai diserbanti. L’agricoltura conservativa sembra essere una pratica sostenibile e redditizia.
L’erosione del suolo, l’impoverimento del terreno e l’abuso di fitofarmaci sono alcuni dei “peccati capitali” dell’agricoltura moderna. Le tecniche di coltivazione tradizionali prevedono un ricorso intensivo ai macchinari, volto a rimestare la terra per favorire una rapida germinazione e una massiva penetrazione delle sostanze nutritive e d’apporto. In Sudamerica e nell’Europa orientale ha però preso piede un nuovo approccio che, progressivamente, sta riscuotendo consensi anche in Italia: l’agricoltura conservativa. Si tratta di una serie di tecniche di coltivazione che hanno come comune denominatore l’eliminazione dell’aratura o, più in generale, la riduzione ai minimi termini della lavorazione del terreno contenendo frequenza, intensità e profondità degli interventi.
L’agricoltura conservativa è una tecnica sostenibile, assai diffusa nel mondo – si stima in oltre 95 milioni di ettari la superficie così gestita – e che mira alla minima alterazione dei fondi al fine di preservarne struttura, fauna e sostanza organica. La copertura permanente del terreno grazie a colture specifiche, residui e coltri protegge le superfici, conserva l’umidità e contribuisce a contrastare il proliferare degli infestanti senza ricorrere ai diserbanti. Ai vantaggi diretti legati a un ridotto sfruttamento del terreno si accompagnano effetti positivi collaterali quali il minore ricorso ai macchinari e il conseguente contenimento tanto dei consumi di carburante quanto delle emissioni inquinanti, il sostegno della biodiversità, un esiguo impiego sia dei fitofarmaci sia dei fertilizzanti e la tutela delle falde acquifere.
L’agricoltura conservativa mira all’ottimizzazione delle risorse e al contenimento del degrado, in special modo l’erosione, del suolo. Le tecniche di lavorazione ridotta, nello specifico, si dividono in quattro macro famiglie. La pratica più radicale, definita “no tillage”, prevede l’abbandono totale tanto dell’aratura quanto di qualsiasi attività che comporti un rimescolamento anche superficiale del terreno, ricorrendo pertanto alla semina diretta su sodo. Il “minimum tillage”, diversamente, si basa su interventi a profondità contenuta, solitamente non superiore a 15 cm, con una copertura di almeno il 30 per cento dei fondi mediante residui colturali, mentre il “vertical tillage” si affida a tagli verticali della crosta, demandati a strumenti che non provochino il rimescolamento delle zolle. Lo “strip tillage”, infine, comporta la lavorazione (solamente) di strisce di terreno larghe al massimo venti cm, interessando con tali passaggi non più del 25 per cento della superficie coltivata.
Particolarmente diffusa nei paesi emergenti grazie al ridotto ricorso ai macchinari, l’agricoltura conservativa va prendendo progressivamente piede anche nel nostro paese. Pur richiedendo una fase di stabilizzazione quantificabile in almeno 5-7 anni, tale pratica porta solitamente a un incremento delle rese per ettaro e favorisce le rotazioni colturali. Per essere messa in pratica necessita però di attrezzature specifiche che spazino dalla gestione (minima ma necessaria) del suolo alla semina, senza tralasciare la concimazione di precisione, così da ridurre al minimo i sovradosaggi e la dispersione in ambiente dei prodotti d’apporto. Un approccio nuovo, sostenibile, alla coltivazione.
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