
L’Italia vuole che un migrante dia una garanzia bancaria di 5mila euro per non finire in un Cpr in attesa dell’esame della domanda d’asilo. Ma la Commissione europea non è d’accordo.
Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, fu ucciso il 9 maggio 1978 dalle Brigate rosse. Con le quali lo stato decise di non trattare.
L’immagine del corpo dell’ex presidente del Consiglio italiano Aldo Moro esanime, accartocciato su sé stesso nel bagagliaio di una Renault 4 ritrovata in via Caetani, a Roma, ha cambiato la storia del nostro paese. Quella fotografia, il 9 maggio 1978, fece il giro del mondo. Ancora oggi, rappresenta il simbolo degli “anni di piombo”: l’apogeo di una guerra civile strisciante che ha segnato l’Italia lungo gli anni Settanta e Ottanta. Fatta di centinaia di attentati, stragi e morti. Di un universo incontrollato, magmatico, di movimenti politici che superarono fatalmente i confini estremi dei loro schemi teorici. Di ruoli mai fino in fondo chiariti di alcuni apparati dello stato.
La fine del due volte capo del governo italiano cominciò ufficialmente il 16 marzo 1978. Aldo Moro – docente di Diritto penale, ex membro dell’Assemblea costituente nel 1946 e deputato dal 1948 – come ogni mattina, lasciò il suo appartamento e salì in auto con gli uomini della scorta. Arrivò in via Mario Fani, una strada tranquilla di un quartiere residenziale della capitale. Lì il corteo si fermò: un commando composto da cinque uomini si affiancò alle auto e aprì il fuoco. Cinque militari – due carabinieri e tre poliziotti – vennero uccisi.
Moro, unico sopravvissuto alla strage, fu sequestrato. Poche ore dopo, con rivendicazioni contemporanee a Roma, Milano e Torino, le Brigate Rosse comunicarono l’impensabile: il gruppo terroristico aveva rapito il presidente della Democrazia Cristiana. Moro era nelle mani delle Br.
Non era una giornata qualunque, quel giovedì 16 marzo. Alle 10 di mattina, era previsto il voto di fiducia per la nascita del quarto governo presieduto da Giulio Andreotti: per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, l’esecutivo sarebbe stato sostenuto da una maggioranza allargata anche al Partito comunista italiano. Il Pci di Enrico Berlinguer, dopo decenni di opposizione, si apprestava alla svolta: era il compimento del “compromesso storico”, la nascita di un governo “di unità nazionale”, lo sdoganamento dei comunisti. Un’alleanza, quella tra Pci e Dc, la cui regia fu condotta – pazientemente, per anni – proprio da Aldo Moro. Che quella mattina si stava recando in Parlamento per il voto.
A due giorni di distanza dal rapimento, sabato 18 marzo, le Brigate Rosse annunciarono il loro “comunicato numero uno” da una cabina telefonica del centro di Roma. “Aldo Moro – recitava il testo – è detenuto in una prigione del popolo e sarà giudicato da un tribunale del popolo”. Cominciava un dramma che durò 55 giorni, punteggiato di silenzi e comunicati delle Br e segnato dal drammatico dibattito interno alla Dc: accettare o rifiutare una trattativa con i terroristi.
Aldo Moro, nei giorni della prigionia, scrisse molte lettere: al governo, alla sua famiglia. Perfino al Papa. Supplicava lo stato di aprirsi al dialogo con i brigatisti, anche a costo di accettarne le rivendicazioni (per la liberazione chiedevano il rilascio di alcuni terroristi detenuti). Il 19 aprile scrisse al segretario della Dc Benigno Zaccagnini, lanciando presagire il peggio: “Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul paese…”.
Al governo e nella Dc, in effetti, passa la linea dura. Il partito, Andreotti e il ministro dell’Interno Francesco Cossiga in testa, rifiutano ogni compromesso con le Br. Alcuni decenni dopo la vedova Eleonora accuserà: “Coloro che erano ai differenti posti di comando del governo lo volevano eliminare”. L’ultimo comunicato dei terroristi, il numero nove, arrivò il 5 maggio. Annunciava la conclusione del processo popolare a carico dello statista: “Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo, eseguendo la sentenza”. Aldo Moro scrisse alla moglie: “Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione”. Quattro giorni dopo il suo corpo sarà ritrovato a via Caetani. Una strada scelta con cura: situata ad identica distanza dalle sedi del Pci e della Dc.
Per l’omicidio di Aldo Moro vennero condannate decine di brigatisti, compreso Mario Moretti, tra i fondatori delle Br e all’epoca a capo dell’organizzazione. I giudici inflissero 32 ergastoli e 316 anni di carcere. Al di là delle condanne, tuttavia, moltissime tesi sono state avanzate attorno al sequestro Moro. Alcuni hanno ritenuto che le Brigate rosse fossero state infiltrate dai servizi segreti americani, con l’obiettivo di screditare la causa comunista in un paese nel quale il Pci raccoglieva ormai un terzo dei consensi.
Dieci anni fa, nel 2008, le tesi di un coinvolgimento degli Stati Uniti furono avvalorate dalle confessioni di un ex funzionario di Washington, Steve Pieczenik, che lavorò agli ordini dei segretari di stato Henry Kissinger, Cyrus Vance e James Baker. L’uomo raccontò alla stampa americana di aver partecipato al sabotaggio dei negoziati con le Br, affermando come l’idea fosse di “sacrificare Aldo Moro per il mantenimento della stabilità politica in Italia”.
In un libro pubblicato dallo stesso Pieczenik (intitolato “Abbiamo ucciso Aldo Moro”), l’ex funzionario afferma di essere stato inviato dall’allora presidente Jimmy Carter a far parte di un “comitato di crisi” capeggiato dal ministro Cossiga. Secondo Pieczenik, il timore era legato alla possibilità che Moro rivelasse ai terroristi alcuni segreti di stato.
Così, fu fabbricato un comunicato fasullo, attribuito alle Brigate rosse, nel quale si affermava che Moro era stato già ucciso. Ciò con il duplice obiettivo di preparare l’opinione pubblica al peggio e di far capire ai terroristi che lo stato non avrebbe mai trattato: per il governo, Moro era già morto.
Nel 2008, la televisione francese France 5 mandò in onda un documentario firmato dal giornalista Emmanuel Amara. Nel film compare anche Cossiga, su un divano, di fronte ad un televisore che mostra Pieczenik mentre rivela la sua versione dei fatti. Fatti che Cossiga conferma: “Si doveva evitare ad ogni costo una trattativa. Anche se il prezzo da pagare fosse stato il sacrificio di Moro”.
Questa ed altre tesi attorno alla morte di Aldo Moro (che al di là delle carte processuali lascia ancora aperti – oggettivamente – numerosi e inquietanti punti di domanda) sono state oggetto di innumerevoli saggi, articoli di giornali, film, opere teatrali. È il caso di “Todo modo”, pellicola di Elio Petri del 1976 (tratta dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia) nella quale un personaggio ispirato dall’ex presidente della Dc fu interpretato da Gian Maria Volonté. O “Il caso Moro”, di Giuseppe Ferrara (1986). O ancora “Romanzo di una strage”, di Marco Tullio Giordana (2012).
Così come due pellicole di Marco Bellocchio: “Buongiorno, notte” (2003) ed “Esterno notte”, lungometraggio di 330 minuti presentato in due parti al cinema tra i mesi di maggio e giugno scorsi e che è stato trasformato in una mini-serie tv per Raiuno. Ad interpretare Aldo Moro, in questo caso, è Fabrizio Gifuni.
Ricco di rivelazioni e analisi è inoltre il documentario “Com’è nato un golpe: il caso Moro”, diretto da Tommaso Cavallini e scritto da Paola Baiocchi e Andrea Montella. Dal quale emerge un quadro ancor più intricato ed inquietante di una delle pagine più oscure della storia della nostra Repubblica.
A teatro il caso Moro è stato portato, tra gli altri, da Corrado Augias e Vladimiro Polchi, con “Aldo Moro – Una tragedia italiana” (2007, regia di Giorgio Ferrara). O ancora in da Marco Baliano con “Corpo di stato – Il delitto Moro: una generazione divisa” (1998, regia di Maria Maglietta).
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