
L’Europa accelera sulle auto elettriche, considerate un elemento cruciale per raggiungere gli obiettivi climatici. Ma non mancano le voci contrarie.
Mentre l’Ue rimanda la decisione sullo stop alle auto più inquinanti al 2035, uno studio evidenzia i rischi connessi a una transizione troppo accelerata.
Nel percorso verso la transizione ecologica delle auto Bruxelles ha innestato una brusca marcia all’indietro. L’adozione del regolamento che prevedeva lo stop definitivo alla produzione di veicoli alimentati da motori termici a partire dal 2035 è, per il momento, rinviata a data da destinarsi. All’incertezza della Germania rispetto a questa svolta radicale verso l’elettrificazione, si sono unite le posizioni fortemente contrarie della Polonia, della Bulgaria e anche del governo italiano. Pur condividendo gli obiettivi di decarbonizzazione europei, per Palazzo Chigi questi provvedimenti devono essere attuati portando avanti “una transizione economicamente sostenibile e socialmente equa, pianificata e guidata con grande attenzione, per evitare ripercussioni negative per il paese sia sotto l’aspetto occupazionale che produttivo”.
Alle stesse conclusioni era arrivato, pochi giorni prima, uno studio realizzato da Federmanager e dall’Associazione italiana economisti dell’energia (Aiee). Una virata troppo decisa verso l’auto elettrica rischierebbe di non essere assorbita dalla nostra filiera dell’automotive, che è caratterizzata principalmente da aziende di piccole dimensioni. Proprio il comparto della componentistica – il cuore dell’auto italiana – sarebbe quello più esposto anche in ragione della dimensione aziendale: su 2.200 imprese, che registrano 161mila occupati e 45 miliardi di fatturato, ben 500 sarebbero fortemente a rischio.
Questo perché l’auto elettrica comporta un minor livello di investimenti, stimato dal rapporto in un meno 25 per cento in 10 anni dovuto al ridotto numero di componenti richieste (circa un sesto di quelle utilizzati dall’auto tradizionale) e alla durata di vita più lunga dei macchinari di produzione dell’elettrico. Uno scenario, spiega il presidente di Federmanager Stefano Cuzzilla, che porta a fare dell’Italia il paese “più penalizzato tra le nazioni europee produttrici di componenti in termini di riduzione di posti di lavoro, con un meno 37 per cento di forza lavoro, vale a dire circa 60mila occupati persi entro il 2040”, il che impone di “bloccare l’emorragia di posti di lavoro e di attuare piani di riconversione del personale”.
Le aziende italiane del settore, oltretutto, sono poco managerializzate: solo il 39 per cento delle imprese del settore è dotato di management in grado di gestire la transizione. Nel rapporto emerge che il ricorso ai manager esterni alla proprietà è comune nel 78 per cento dei casi se si tratta di gruppi esteri operanti in Italia, mentre scende al 30 per cento nel caso di gruppi italiani (dove predomina il modello misto di gestione) e si polverizza al 6 per cento nel caso di imprese a conduzione familiare.
“I manager – continua Cuzzilla – hanno un ruolo guida. La loro presenza è funzionale a indirizzare l’impresa verso i target di innovazione e sostenibilità, tanto più in questo settore che è esposto alla competizione di player internazionali e che risente direttamente delle scelte politiche dei nostri vicini di casa, Germania in primis, dove va il 20 per cento dell’export dell’indotto auto italiano”.
Nella visione di Federmanager e Aiee l’elettrico non rappresenta l’unica via per la transizione ecologica del comparto. Per questo motivo le due realtà fanno affidamento sul governo italiano per avere un quadro di “regole certe, ispirato dai principi di neutralità tecnologica e gradualità della transizione, a conferma della sostenibilità dei futuri investimenti nel settore”. In sostanza non si vuole rinunciare all’obiettivo della decarbonizzazione, ma “solo con tempi e modi certi è possibile realizzare il cambio di modello. Semplificazione burocratica e attrazione degli investimenti stranieri devono fare parte di questa unica strategia”. Tra le proposte di Federmanager c’è l’istituzione di un fondo per la conversione del settore: questa misura dovrebbe essere finalizzata innanzitutto all’aggiornamento professionale, sulla scia di quanto realizzato con il Fondo nuove competenze, anche attingendo alle risorse Piano nazionale di ripresa e resilienza.
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