Cooperazione internazionale

La prima cosa che si impara dopo un viaggio nella Valle dell’Omo è dire Barjo Imè

Un viaggio per scoprire il valore del tempo, il senso di un abbraccio, il modo migliore per affrontare un problema. Dopo un’esperienza nella Valle dell’Omo si può imparare tutto questo. Così è nata l’associazione Barjo Imè.

Barjo Imè vuol dire “grazie” nella lingua degli Hamer, una popolazione che vive nella Valle dell’Omo, in Etiopia. Ed è il nome scelto per la onlus che da un paio d’anni è attiva per migliorare, senza “invadere”, la vita di queste persone. Barjo Imè nasce da una passione, quella per il viaggio, e da un’amicizia che lega Giovanni Miceli, tour leader esperto de La compagnia del mar Rosso, agli abitanti dei villaggi di Arna e Labella. Miceli da anni si occupa, per lavoro, di scoprire nuove mete, di esplorarle e dar vita a itinerari al fine di accompagnare viaggiatori in varie destinazioni mossi dalla voglia di conoscere altri luoghi e culture. Un’esperienza che prende vita anche quest’anno, dal 24 ottobre al 3 novembre. Abbiamo incontrato Miceli per conoscere meglio questo luogo, questa popolazione, questa esperienza.

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Una riunione degli Hamer, Valle d’Omo, Etiopia © Marina de Luca

Com’è nata l’associazione Barjo Imè?
Barjo Imè è una onlus fondata due anni e mezzo da persone che, come me, hanno potuto vivere il territorio della Valle dell’Omo cercato di capire quali fossero le possibilità d’intervento. Prima di fondare quest’associazione ho frequentato per anni queste terre, e mi sono innamorato delle persone che ci vivono, in particolare degli Hamer. La Valle dell’Omo è conosciuta nel mondo per la grande varietà di etnie che vi abitano. È davvero la culla dell’umanità, è qui che sono stati ritrovati i resti della famosa Lucy (il nome dato ai resti di australopiteco che risalgono a oltre tre milioni di anni fa, ndr). Qui vivono 45 etnie diverse, tutte con caratteristiche differenti tra loro: la lingua, le abitudini, i costumi, il modo di interagire. C’è veramente una grande biodiversità umana.

Perché Barjo Imè sostiene proprio il popolo degli Hamer?
Prima di tutto per una scelta: non è possibile aiutare tutti perché tutti avrebbero bisogno di aiuto. Personalmente mi sono legato agli Hamer dopo una serie di viaggi in cui ho avuto la possibilità di frequentarli creando un rapporto umano che si è sviluppato nel corso degli anni. Gli Hamer sono una popolazione aperta, accogliente, sorridente, interessata allo scambio interculturale con persone, come noi, estremamente diverse – questa cosa mi ha attratto fin dall’inizio. Ho frequentato queste zone insieme ad altri compagni di viaggio e abbiamo compreso come fosse necessario dar vita a una forma di aiuto. In queste zone il governo centrale è poco presente, quindi le popolazioni sono isolate e abbandonate dallo stato etiope. Sono regioni remote, di savana dove manca la luce, l’acqua corrente, mancano le fognature. Queste persone vivono in piccoli villaggi isolati tra loro fatti di capanne di legno e di fango, come Arna e Labella. Per questo è importante aiutarle in loco, perché la loro storia e la loro cultura sono basate sulla pastorizia, anche se adesso gli abitanti dei villaggi non si spostano più come prima. Solo i pastori si spostano seguendo il bestiame, ma per qualche giorno, poi fanno ritorno nello stesso luogo da cui sono partiti.

Qual è la situazione in quella regione, sia dal punto di vista ambientale che climatico?
Sono zone dove cominciano a farsi sentire gli effetti dei cambiamenti climatici, sia quelli a livello globale che quelli indotti, attraverso la trasformazione del territorio attraverso la costruzione di dighe sul fiume Omo, che hanno limitato tantissimo la portata d’acqua. Per questo i popoli che dall’Omo dipendono non sanno cosa devono aspettarsi dal futuro, se avranno la possibilità di restare o se saranno costrette a muoversi per via della mancanza di acqua – acqua che viene sfruttata dalle multinazionali per l’irrigazione di piantagioni intensive di canna da zucchero, di cotone e altro.

Qual è il modo di operare dell’associazione Barjo Imè?
La nostra è un’associazione piccola con sede in Italia e che si affida a una onlus partner (la Barjo Imè hammer education support and development Charity association, ndr) con sede nella capitale Addis Abeba. Questa viene gestita da un referente etiope, Yonas Mahetemu, che ormai è diventato un amico e un fratello, quindi una persona fidata. Lui è il primo anello di una catena che si sviluppa nei villaggi oggetto di intervento, a circa 900 chilometri dalla capitale. Nel paese di Turmi, il centro nevralgico dell’etnia Hamer, ci avalliamo della collaborazione di un ragazzo che appartiene a questa tribù, Wado Bodo, che conosce gli usi e soprattutto la lingua, e funge un po’ da meditatore così da avere la certezza che le attività che mettiamo in campo e i progetti vengano seguiti e valorizzati. Noi facciamo interventi piccoli, mirati che rispettano il loro pensiero – molto diverso da quello occidentale. La visione di queste popolazioni è a breve termine, quindi è importante procedere piano piano e far conoscere il valore di lavorare oggi per costruire qualcosa domani. In realtà, per chi vive in queste terre quando finisce la luce del giorno finisce ogni tipo di progetto: si vive alla giornata.

Quindi per noi è importante confrontarci con il consiglio degli anziani dei tre villaggi che aiutiamo prima di fare qualunque tipo di intervento. Mettiamo sul piatto della bilancia le nostre idee, la nostra logica e la loro, ascoltiamo le esigenze per trovare una mediazione e sviluppare progetti condivisi.

hamer, etiopia
Un ragazzo hamer, Valle dell’Omo, Etiopia © Giovanni Miceli

Ci sono esempi di proposte che dal tuo punto di vista avrebbero potuto dare un contributo positivo e che sono state abbandonate dopo il confronto con il consiglio degli anziani?
Gli Hamer si muovono e si spostano solamente a piedi, così avevamo pensato che mettere a loro disposizione un asino con un carretto fosse una buona idea per evitare di percorrere chilometri sotto il sole, a piedi nudi, con l’acqua o il grano sulle spalle. Lo abbiamo proposto durante uno di questi consigli, ma la risposta è stata che non erano pronti per questa innovazione, perché l’asino ha bisogno di cibo, di foraggio e di una persona che se ne prenda cura, quindi per ora abbiamo sospeso questa proposta. Una cosa che a noi sembrava semplice e che potesse dare buoni risultati, è stata invece respinta per esigenze alle quali non avevamo pensato.

Al contrario, di cosa hanno maggiormente bisogno gli Hamer?
I bambini, i giovani sono coloro che hanno bisogno di maggiori attenzioni perché rappresentano il futuro di questa tribù. Per questo si è pensato di intervenire in modo primario nell’istruzione e solo secondariamente sull’accesso all’acqua, anche se per loro è di vitale importanza.

Abbiamo costruito la scuola nel villaggio di Labella, che si trova a sei chilometri dal primo centro urbano. Anche se non c’è una strada per raggiungerlo, è stata scelta questa posizione proprio perché lì, in quel villaggio nessuno andava a scuola perché si sarebbero dovuti percorrere troppi chilometri per raggiungere la scuola più vicina. Al momento abbiamo costruito solo quest’edificio, fatto in muratura che durerà nel tempo, con due classi separate e due aule diverse. È frequentata da 24 bambini. Il prossimo progetto prevede la costruzione di altre due aule e degli alloggi per gli insegnanti perché arrivano, come tutti, a piedi dalla città più vicina che dista sei chilometri. La distanza contrae il tempo a disposizione per fare lezione. Per questo sono stati proprio loro a chiedere che venissero realizzati degli alloggi per pernottare durante la settimana e offrire più ore di lezione ai a bambini.

La scuola ha attratto anche l’attenzione degli adulti, dei genitori: vogliono frequentarla anche loro, chiaramente la sera, perché, stimolati dal fatto che ci vadano i loro figli. Vogliono imparare, se non altro, a leggere e scrivere. A breve vorremmo mettere a disposizione anche un pannello solare per avere la luce di sera e far sì che anche queste persone possano frequentare le lezioni.

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Ragazzi hamer vanno a scuola, nella nuova scuola in muratura © Giovanni Miceli

Chi decide di partire con te per questo viaggio, come può contribuire all’attività dell’associazione in modo concreto?
Chi è partito per la Valle dell’Omo con me come turista ha iniziato ad aiutare spontaneamente l’associazione con donazioni e attraverso una forma di partecipazione attiva: vedere con i propri occhi queste persone e questo mondo, che noi difficilmente immaginiamo stando a queste latitudini, ha un impatto enorme. Il vantaggio di viaggiare con noi è la conoscenza e la familiarità con la tribù e con il territorio. Il nostro viaggio è focalizzato sulla condivisione della giornata. Si campeggia con le tende di fronte al villaggio, si partecipa e comprende meglio come queste persone vivono, di cosa possono avere bisogno. Questo rapporto storico e di fiducia si è instaurato nel corso del tempo con gli Hamer, non con tutte le popolazioni della Valle dell’Omo. È un viaggio dell’anima e del cuore, per osservare sia i lati belli che quelli brutti, perché un viaggio di scoperta non prevede filtri.

Ci racconti uno dei momenti più particolari che hai vissuto vivendo per anni con gli Hamer?
Negli ultimi quattro anni ho trascorso il mio compleanno sempre con loro, perché cade proprio in ottobre, quando è previsto il viaggio. L’affetto che mi dimostrano in questa occasione è unico: in qualche modo hanno capito che per noi occidentali il compleanno è importante, anche se per loro non conta nulla, perché nessuno di loro sa quando è nato. Organizzano una festa dove si mangia carne di capra – un altro dei loro alimenti base. Passare con questi bambini del tempo, in generale, è un’esperienza che non ha mai lasciato nessuno indifferente. Loro sono persone di contatto: se girando per le strade di Milano ti capitasse di abbracciare qualcuno, probabilmente verresti respinto o addirittura verrebbero chiamate le forze dell’ordine. Lì invece c’è l’abitudine al contatto fisico quotidiano, quindi anche nei confronti dello straniero c’è questa forma di accoglienza che a volte per noi è sconvolgente perché non ci siamo abituati.

Giovanni Miceli in Etiopia
GIovanni Miceli insieme a un gruppo di bambini hamer che festeggiano il compleanno

La parola “fratello” che io dispenso in modo tutt’altro che generoso, in questo caso è perfetta perché è facile avere con queste persone un rapporto che ti fa pensare di far parte della famiglia dopo poco tempo. Per la loro capacità di accoglierti nonostante la diversità. Dalla fiducia che si instaura tra noi e loro si ottengono i migliori risultati.

Come ci si sente al ritorno da questo “viaggio”?
Quello che cerchiamo di fare è far vivere appieno questo tipo di emozioni – di lentezza, di tempi dettati dalla luce e dal buio – mentre le persone sono con noi in viaggio. Fare in modo che non ci si porti a casa solo la valigia con la quale si è partiti, ma con un bagaglio di cognizioni che tutti abbiamo, ma che spesso sono messe in un angolo. Sarebbe bello tornare con la consapevolezza che nessun problema è troppo grande per essere risolto, visto che ci sono persone che riescono a vivere, con il sorriso, nonostante vivano problemi immensamente più grandi. Quando bisogna andare al pozzo a prendere l’acqua, a nessuno viene in mente di domandare quanto ci vuole. Si va, si prende e si torna. Ci volesse un’ora o dodici ore. Da loro possiamo imparare il valore del tempo.

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