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Paul Simon si sta divertendo a un party tra amici nella sua amata New York. Ma c’è un problema: il padrone di casa, scambiandolo forse per qualcun altro, continua a chiamarlo Al…
Anno 1985 – Paul Simon si sta divertendo a un party tra amici nella sua amata New York. Ma c’è un problema: il padrone di casa, scambiandolo forse per qualcun altro, continua a chiamarlo Al. Alla terza volta Paul Simon, anziché spazientirsi, gli dice con tranquillità e un pizzico di ironia: “You can call me Al”, chiamami pure Al.
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Colpito da questa buffa esperienza, Simon ne fa tesoro e compone un brano che è una intelligente riflessione sulla perdita di identità. E che intitola proprio You can call me Al. E seppure qualcuno sostenga che quel “Al” stia per alcolizzato anche perché, in effetti, il protagonista della canzone alza spesso il gomito, la storia della festa a Manhattan pare la più credibile. Quel che è sicuro è il successo della canzone che traina il formidabile progetto Graceland, l’album che vede Paul Simon flirtare con suoni e ritmi del Sudafrica. Un’operazione che, dato il boicottaggio delle Nazioni Unite nei confronti della stato africano per via del regime di apartheid, gli costerà critiche durissime, ma anche riconoscimenti artistici straordinari.
A contribuire alle fortune di You can call me Al ci pensa il divertente videoclip con protagonista lo stesso Simon a fianco del suo amico Chevy Chase. Durante la corsa alla presidenza degli Stati Uniti del 1992, quella che vedeva lo scontro tra Bill Clinton e George W. Bush, il brano è stato usato come tema della campagna elettorale del futuro vicepresidente Al Gore.
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