A casa dei critici d’arte, dove il comfort è fatto di musica, piante, atmosfere avvolgenti

Per deformazione professionale i critici d’arte hanno sviluppato un atteggiamento naturalmente smaliziato, selettivo e talvolta distaccato verso gli oggetti di pregio, e in alcuni casi arrivano a identificare il comfort in atmosfere immateriali fatte di suoni, luci, abitudini o rituali.

Se fossimo abituati a concepire il nostro rapporto col mondo nei termini di uno spazio da abitare, ci apparirebbe immediatamente evidente come da sempre le arti assolvano una serie di funzioni sorprendentemente simili a quelle di chi si sforza di trasformare un luogo sconosciuto e inospitale in un ambiente domestico e vivibile: preservarci dal non-senso e dall’anonimato, dalla serialità e dal grigiore, costruire attorno a noi aggregazioni di significato, memoria o emozione che rappresentino altrettante chiavi di lettura della realtà e che rendano decifrabile la nostra quotidianità popolandola di oggetti e simboli riconoscibili.

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La frequentazione abituale e professionale degli oggetti di pregio conferisce al critico d’arte un approccio peculiare verso arredi e manufatti.

Interpellare quella peculiare categoria di “inquilini” professionalmente impegnati nell’attività di critici d’arte implica dunque la ragionevole speranza di desumere dalla loro esperienza qualche indicazione particolarmente istruttiva in merito alla nostra relazione con oggetti e arredi casalinghi, al piacere estetico e al comfort che traiamo da essi, al dialogo secolare tra arte e architettura, al ruolo svolto dalla pubblicità e del design e ad altre questioni correlate.

L’orientamento dei critici d’arte verso arredi e manufatti

Chi per mestiere ha eletto a proprio tema di indagine quella specifica e privilegiata categoria di “cose” che solitamente definiamo “arte”, è inevitabilmente propenso a sviluppare in generale nei confronti degli oggetti un atteggiamento smaliziato, selettivo e culturalmente consapevole. “L’orientamento del critico o dello storico dell’arte verso arredi o manufatti di qualunque genere oscilla solitamente tra due estremi antitetici” afferma infatti Stefano Sbarbaro, coordinatore di TVN Mediagroup Arte e Cultura, nonché esperto di storia della pubblicità e di rapporti fra arte e comunicazione. “Da un lato assistiamo al fenomeno del collezionismo, ovvero alla feticizzazione esplicita degli oggetti e alla conseguente tendenza a ricercarli e accumularli in ragguardevole quantità”, spiega Sbarbaro. “Sul versante opposto troviamo invece chi, come me, nell’ambito della propria vita domestica ha sviluppato una sorta di astrazione dal mondo delle opere d’arte intese come cose materiali: non ho alcuno slancio possessivo verso di esse, non ho la tendenza a portarmele in casa.

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Il collezionismo implica spesso la feticizzazione e l’accumulo degli oggetti d’arte

Semmai il luogo in cui abito, ovvero in cui prevalentemente esercito la mia professione di studioso, è dominato dalla presenza dei libri: trattandosi di veri e propri strumenti di lavoro, che si assommano a centinaia su scaffali e librerie, la principale difficoltà pratica consiste nell’organizzarli e disporli secondo criteri logici plausibili.

E da ex-musicista, ovvero clarinettista che suonava in orchestra, ho preoccupazioni analoghe anche riguardo ai miei numerosi CD: per fortuna la rivoluzione tecnologica, ovvero Spotify e tutti gli altri dispositivi, hanno notevolmente ridimensionato il problema modificando le modalità di fruizione. E per tutte queste ragioni, la massima espressione del comfort casalingo consiste per me in una bella poltrona sulla quale potermi rilassare ascoltando musica e fumando un sigaro, con la serenità di avere biblioteca e scrivania in perfetto ordine”.

Il fascino delle contaminazioni interculturali

In altri casi, tuttavia, la frequentazione familiare dell’arte e la simbiosi tra mondi culturali diversi lascia tracce domestiche del tutto peculiari. “Ho sempre avuto la tendenza ad interpretare la mia casa alla maniera di Virginia Woolf, ovvero come l’estensione di ‘una stanza tutta per sé’ “, racconta Martina Mazzotta, filosofa di formazione, curatrice e responsabile dell’omonima fondazione paterna. “Qui a Londra abito in un’ex-scuola vittoriana, più precisamente nel luogo precedentemente adibito a stalla in cui alloggiavano i cavalli.

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Esempio di architettura scolastica di epoca vittoriana

Alle pareti, tinteggiate di color antracite, ho affisso una serie di immagini relative alla storia della casa editrice Mazzotta, ovvero ai celebri lavori di edizione e stampa che mio padre realizzò con Andy Warhol e Roy Lichtenstein. Reputo fondamentale trasmettere ai miei figli il senso di una doppia identità culturale, che affonda le sue radici nella civiltà britannica del loro padre e della città in cui vivono ma anche nel contesto di quell’arte milanese che ha ispirato l’attività della Fondazione Mazzotta”. E malgrado la singolare varietà e qualità di suggestioni figurative trasmesse da una simile eredità familiare, può accadere che l’anima del focolare domestico venga identificata altrove: “Tendo a concepire il comfort casalingo come qualcosa di impalpabile che promana non da oggetti materiali ma piuttosto da atmosfere avvolgenti, quali l’illuminazione e il suono”, puntualizza Martina. “Ad esempio un sottofondo musicale diffuso a volume non troppo alto, di volta in volta adeguato ai diversi momenti della giornata, come un bel brano di Philip Glass o la luce irradiata da faretti led e sculture illuminate dall’interno, ma combinata con quella naturale proveniente dalle finestre”.

Non semplici oggetti, ma organismi viventi

“La presenza di opere d’arte ha il potere di conferire ad un luogo atmosfere e intensità totalmente diverse rispetto a quelle di una casa normale” sostiene Annalisa Scandroglio, caporedattrice di Art Super Magazine nonché professionista attiva nell’ambito dell’arte contemporanea, dove attraverso la società Olimpyaa si occupa di fundraising, supporto ai collezionisti, arte-terapia e altri servizi connessi. “L’arte esercita sull’ambiente circostante un impatto immateriale, quasi energetico“, afferma Annalisa. “Ma al tempo stesso assolve una funzione talmente specifica da non poter essere confusa con quella degli oggetti di uso comune, perfino in un’epoca in cui il design ha introdotto un’iperestetizzazione diffusa di utensili, arredi e simili.

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Il comfort può essere identificato in un organismo vivente come una pianta, invece che in un oggetto inanimato.

A differenza di essi, l’opera d’arte veicola contenuti concettuali articolati e pertanto richiede spesso una mediazione interpretativa o la competenza specifica di un art advisor. Ma se in casa mia dovessi individuare l’emblema del comfort, non lo identificherei in un manufatto bensì in un organismo vivente, ovvero in una pianta rigogliosa e verde che ho ricevuto in regalo e che accudisco nel mio appartamento. Avendo scoperto tempo fa di possedere il cosiddetto pollice verde, e dunque di saper far crescere e prosperare le creature vegetali, ogni volta che riesco a concedermi dieci minuti di relax li dedico alla mia pianta, a capire di quanta acqua abbia bisogno e ad innaffiarla: considero la sua presenza per certi versi simile a quella di un animale o di un bambino”.

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