L’amministrazione Usa ha sospeso le domande per l’immigrazione delle persone provenienti da 19 paesi. Nel frattempo vanno avanti le retate nelle città.
Un documento della Corte penale internazionale punta il dito contro l’esercito Usa e la Cia. Le torture sarebbero state decise dai vertici americani.
Fatou Bensouda, procuratrice della Corte penale internazionale che indaga sui crimini commessi in Afghanistan, ha fatto sapere che è stata raccolta “una base ragionevole” di indizi che permette di ipotizzare trattamenti crudeli effettuati ai danni di “presunti membri di al-Qaeda e dei talebani” arrestati nella nazione asiatica e trasferiti in Europa in prigioni segrete della Cia. In un documento reso pubblico il 14 novembre della stessa Bensouda, si spiega che alcuni membri dell’esercito americano e della Cia avrebbero fatto ricorso a metodi che costituiscono crimini di guerra: “Torture, trattamenti crudeli, attentati alla dignità personale e stupri”.
L’esame preliminare della Corte ha in particolare identificato in tutto 88 vittime a partire dal mese di maggio del 2003. Soprattutto, il rapporto sottolinea che “la gravità dei crimini è incrementata dal fatto che essi sarebbero stati perpetrati eseguendo piani o politiche approvati dalle più alte sfere del governo degli Stati Uniti” dell’epoca. Ovvero dall’amministrazione repubblicana guidata da George W. Bush. L’obiettivo sarebbe stato quello di ottenere informazioni importanti riguardanti il conflitto afgano, anche attraverso l’uso di specifiche tecniche d’interrogatorio violente. Alcune pratiche, come ad esempio il waterboarding (la simulazione di annegamento) sono state poi vietate, nel 2009, dall’amministrazione Obama.
Il tutto all’interno di centri di detenzione segreti, la cui esistenza era stata rivelata per la prima volta nel 2005. Due anni dopo, il Consiglio d’Europa aveva chiesto al senatore svizzero Dick Marty di indagare sulla questione: il parlamentare aveva denunciato quindi “una ragnatela mondiale” di reclusioni e trasferimenti illegali di prigionieri effettuati dagli Stati Uniti, con l’appoggio di alcune nazioni europee.
Si tratta in particolare di Polonia, Romania e Lituania: Paesi che avrebbero avviato una serie di inchieste tramite i propri sistemi giudiziari interni. Tuttavia, la procuratrice Bensouda ha affermato di non aver avuto la possibilità di verificare se tali indagini mirino esclusivamente ad individuare eventuali esecutori materiali o se puntino a ricostruire l’intera catena di comando e, dunque, a comprendere da chi siano partiti gli ordini.
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