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Tuvalu, piccola isola del Pacifico, è estremamente vulnerabile all’innalzamento del livello del mare. Alla Cop27 ha chiesto obiettivi sulla transizione.
Tuvalu è diventato il primo paese al mondo a utilizzare i colloqui sul clima delle Nazioni Unite per chiedere un trattato internazionale di non proliferazione dei combustibili fossili, che eliminerebbe gradualmente l’uso di carbone, petrolio e gas.
La piccola nazione insulare del Pacifico, che è estremamente vulnerabile all’innalzamento del livello del mare causato dal riscaldamento globale, si accoda alla richiesta di Vanuatu, altra isola del Pacifico, che aveva chiesto un trattato di non proliferazione sui combustibili fossili nel 2015, dopo che il ciclone Pam distrusse il 96 per cento dei raccolti dell’isola.
I rappresentanti di Tuvalu non hanno partecipato di persona alla Cop27 d’Egitto ma in collegamento il primo ministro Kausea Natano ha affermato che “i mari hanno iniziato a inghiottire le nostre terre, centimetro dopo centimetro. Ma la dipendenza del mondo da petrolio, gas e carbone non può far affondare i nostri sogni sotto le onde”.
Gli attivisti per il clima hanno accolto favorevolmente la mossa di Tuvalu e hanno condannato i grandi inquinatori, tra cui Stati Uniti e Cina, per essersi assicurati, durante i lavori della scorsa Cop di Glasgow, che i combustibili fossili fossero ampiamente al sicuro: l’anno scorso, come ricordano gli attivisti, i paesi partecipanti hanno promesso per la prima volta di “ridurre gradualmente” l’uso del carbone, mentre l’uso di gas e petrolio non è stato menzionato.
“Ci uniamo a cento premi Nobel per la pace e migliaia di scienziati in tutto il mondo e sollecitiamo i leader mondiali ad aderire al trattato di non proliferazione dei combustibili fossili per gestire una giusta transizione dai combustibili fossili”, ha concluso Natano.
“Paesi come Tuvalu sono quelli in prima linea, sanno che non possono semplicemente cedere agli interessi delle compagnie di combustibili fossili”, ha affermato Harjeet Singh, capo della strategia politica globale presso Climate action network international. “Sappiamo chi sono le vittime della crisi climatica e sappiamo chi sono gli autori, ma non discutiamo mai di combustibili fossili, l’elefante nella stanza”.
Singh ha affermato che un trattato sui combustibili fossili, sul modello del trattato di non proliferazione nucleare, dovrà concentrarsi sulla domanda di fonti fossili, quindi sull’estrazione, limitando lo sfruttamento delle riserve e dovrà fissare degli obiettivi per un passaggio più equo verso le energie rinnovabili.
Per ora l’idea di accettare esplicitamente l’invito a ridurre l’uso di combustibili fossili non sembra tra le priorità dei governi riuniti a Sharm el-Sheik. L’obiettivo di un trattato di questo tipo sarebbe dare una concretezza giuridica alla richiesta della comunità scientifica, cioè seguire il mantra keep it in the ground, “teneteli sotto terra”, quindi di fermare l’ampliamento dell’estrazione di petrolio, gas e carbone, che ancora oggi non ha regole, nonostante l’Agenzia internazionale per l’energia abbia avvertito che non possono essere costruite nuove infrastrutture dedicate a carbone, petrolio o gas se il mondo vuole evitare gli effetti più disastrosi del riscaldamento globale.
Sebbene nessun grande emettitore abbia finora considerato la richiesta di un nuovo trattato, l’invito è stato sostenuto dal Vaticano, dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e da una rete di sindaci tra i quali quello di Londra, Sadiq Khan. Gli attivisti sperano che il sostegno alle nazioni del Pacifico contribuirà a creare un tipo di slancio simile a quello che ha portato all’accordo storico di Parigi, dove per la prima volta è stato fissato un limite all’aumento delle temperature di 1,5 gradi centigradi.
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