Mining e criptovalute devono utilizzare meno energia (e rinnovabile)

Il sistema di estrazione, il mining, delle criptovalute, è responsabile dello 0,6% del consumo di energia mondiale. L’esempio rinnovabile del Trentino.

  • Nel 2021, il fabbisogno annuale di energia elettrica richiesto dalla produzione di Bitcoin ha rappresentato lo 0,6 per cento della produzione mondiale
  • L’impatto ambientale della produzione di criptovalute è diventata una “questione di rilievo nazionale” per la Svezia
  • L’Unione europea vorrebbe vietare le attività più energivore legate alla creazione di criptovalute

La produzione di monete digitali, comunemente chiamate criptovalute, richiede troppa energia elettrica. Per questo motivo, l’Unione europea vuole intervenire per regolamentare le attività di mining, cioè di “estrazione” (creazione) di questo tipo di valuta. A darne annuncio, in un’intervista rilasciata al Financial Times, è stato il vicepresidente dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma), Erik Thedéen.

Quest’ultimo ha invocato un cambiamento delle attività attraverso le quali si estraggono le monete digitali. Un problema che sta diventando sempre più importante, tanto da diventare una “questione di rilievo nazionale” in diverse parti del mondo, per esempio in Svezia, nazione dalla quale proviene proprio Thedéen.

Come funziona l’attività di mining delle criptovalute

La tecnologia che sta alla base delle criptovalute è conosciuta come blockchain. La tradizione letterale è “catena di blocco”: si tratta del libro mastro (registro) sul quale vengono annotate tutte le transazioni effettuate con una moneta digitale. Tale registro è condiviso tra tutti coloro che contribuiscono a generare criptovalute (i cosidetti miner) attraverso l’estrazione digitale. I miner devono rispettare un protocollo di regole. Alla base del protocollo in questione c’è un “algoritmo di consenso”: il primo a essere stato creato e usato, in particolar modo dal Bitcoin, è stato il cosiddetto proof of work.

Si tratta di un sistema che si basa sulla risoluzione di problemi matematici molto complessi da parte della rete dei miner. In pratica, computer molto potenti cercano di risolvere il problema al fine di modificare o aggiungere un blocco alla blockchain e ricevere una ricompensa (in criptovaluta, ovviamente) per il lavoro svolto. Quindi, maggiore è la potenza di calcolo, maggiori sono le probabilità di risolvere per primi il problema e guadagnare così la ricompensa.

Nel corso degli anni, i miner hanno cercato di aumentare sempre di più la potenza di calcolo per aggiudicarsi sempre più criptovalute, con la conseguenza che la difficoltà dei problemi proposti è aumentata esponenzialmente. Così come la potenza computazionale richiesta. Ne è derivata la nascita delle mining farm (o mining pool): autentiche “fabbriche” dedicate all’estrazione di criptovaluta composte da migliaia di computer in rete. Il che ha fatto aumentare enormemente il fabbisogno energetico di tali operazioni.

Le criptovalute hanno consumato lo 0,6 per cento dell’energia mondiale nel 2021

Il consumo annuale del solo Bitcoin possa essere stato di 129 terawattora nel 2021, secondo le stime del Cambridge bitcoin electricity consumption index (Cbeci). Parliamo dello 0,6 per cento della produzione elettrica mondiale, pari all’assorbimento di una nazione come la Norvegia. Per avere un termine di paragone, nel 2019 un colosso del digitale come Google aveva consumato “solo” 12,2 terawattora.

“L’estrazione di Bitcoin è ora una questione nazionale per la Svezia a causa della quantità di energia rinnovabile dedicata alla sua estrazione”, ha detto Thedéen. “Sarebbe assurdo se l’energia eolica generata sulla lunga costa svedese fosse utilizzata per generare criptovaluta”, ha aggiunto.

bitcoin hardware mining
Un hardware per il mining di bitcoin © Andrew Burton/Getty Images

Mining, in Trentino si estraggono bitcoin da energia rinnovabile

Per queste ragioni, l’estrazione di bitcoin viene considerata un’operazione poco ecologica. Anche perché il secondo più grande centro di estrazione al mondo (dopo la Cina) è il Kazakhstan, che basa la produzione di energia elettrica in larga parte sul carbone. Ovvero la fonte fossile in assoluto più dannosa per il clima.

Tuttavia, esistono anche esempi di “fabbriche di bitcoin” alimentate con energie rinnovabili. In Trentino Alto Adige, ad esempio, stanno nascendo sempre di più impianti di estrazione di criptovalute che riportano in vita vecchie centrali idroelettriche. A Borgo d’Anaunia, comune di 2.500 abitanti della Val di Non, una centrale idroelettrica del 1925 verrà usata per dare energia pulita a un nuovo impianto di mining per l’estrazione di bitcoin.

La priorità è cambiare la “proof of work”

Indipendentemente da come viene prodotta, se con fonti fossili o energia rinnovabile, la produzione di criptovalute rappresenta un problema di approvvigionamento: ha senso usare così tanta energia a questo fine? La proposta del vicepresidente dell’Esma è quella di passare da un meccanismo di proof of work a un sistema più sostenibile, conosciuto come proof of stake, già sperimentato da altre criptovalute alternative al Bitcoin, quali Ethereum, Nxt, Peercoin. In questo caso, il procedimento attraverso il quale i computer competono tra loro per risolvere problemi matematici complessi, cioè il mining, viene sostituito da un sistema in cui i cosiddetti validators garantiscono la validità delle operazioni effettuate sulla blockchain impegnando una quota delle proprie criptovalute (appunto le “stake”).

Chi vuole candidarsi a diventare un validator, insomma, deve depositare una quota delle proprie criptovalute all’interno del network, impegnandola come una sorta di garanzia o deposito cauzionale. Una volta che un nodo viene selezionato come validator (la scelta avviene in maniera randomizzata) del blocco successivo, questo dovrà controllare se le transazioni in esso contenute sono valide, firmare il blocco e aggiungerlo alla blockchain.

Poiché la proof of stake non richiede energia extra per dimostrare l’affidabilità, è molto più efficiente dal punto di vista energetico. A differenza della proof of work, dove sono necessari supercomputer, la proof of stake può essere eseguita da un unico laptop. I nodi della rete, i validators, sono spazi virtuali, non apparecchiature fisiche, il che potrebbe ridurre del 99,9 per cento l’impatto, secondo quanto riferito da Ethereum. Diversi esperti criticano però la proof of stake, ritenendola un metodo meno sicuro. Il fatto che non costi quasi nulla diventare un validator può attrarre anche impostori e cyber-criminali. Per questo, diverse criptovalute stanno lavorando ad algoritmi più sofisticati per attribuire il ruolo dei validator, dimostrando che la proof of stake sta diventando materia d’interesse per diversi sviluppatori. Una buona prospettiva per il futuro delle criptovalute e per il loro impatto sull’ambiente.

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