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Il parto in anonimato in Italia è un diritto. La Culla per la vita garantisce il rispetto di una scelta che non può essere messa in discussione. Neanche dai social.
Alessandra Taddeo è una pedagogista, consulente familiare e consulente del sonno. Ha lavorato per anni nell’ambito della tutela minori e in quello dei servizi scolastici.
È il giorno di Pasqua quando un allarme nella neonatologia della clinica Mangiagalli di Milano comincia a suonare per segnalare la presenza di un bimbo nella “Culla per la vita”. Il piccolo, di nome Enea secondo quanto riferito dalla madre, sta bene e nella culla insieme a lui è stata trovata una lettera in cui la mamma spiega l’impossibilità di prendersene cura pur garantendo sullo stato di salute del piccolo. Enea è stato accudito dagli specialisti della clinica milanese ed è stato sottoposto ai controlli di routine. Il Tribunale per i minorenni di Milano si occuperà delle pratiche per l’adozione.
Forse questa pratica è ancora poco conosciuta, ma in Italia con la legge 2000 (DPR 396/2000 art. 3, comma 2) è possibile partorire in modalità anonima, per garantire la sicurezza della mamma e del bambino. Il nome della madre rimane segreto e nell’atto di nascita viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”. Il bambino rimane all’ospedale e gli vengono garantite tutte le cure e l’assistenza giuridica. La dichiarazione di nascita in questo caso può essere effettuata dall’ostetrica che ha assistito al parto o dal medico.
L’applicazione di questa legge si traduce nella pratica con l’installazione, vicino ad alcuni ospedali d’Italia, delle cosiddette “culle per la vita”. In Italia si parla di circa 400 bambini all’anno accolti dalle culle per la vita, quella del Mangiagalli è attiva da 16 anni e questo è il terzo caso registrato, dopo quelli del 2012 e del 2016.
La culla è un ambiente protetto situato all’ingresso del Policlinico, in un punto privo di telecamere per poter garantire l’anonimato alla madre e l’accoglienza in totale sicurezza del bambino. Premendo un pulsante si apre una serranda che consente l’accesso ad un’incubatrice riscaldata dove si può lasciare il neonato; dopo pochi secondi la serranda si abbassa e attraverso un segnale acustico viene avvisato il reparto della presenza del neonato. Trascorsi dieci giorni, termine ultimo per il riconoscimento, il Tribunale per i minorenni inizia a gestire la pratica inserendo il neonato nelle liste per l’adozione.
“Nella ricca Milano non è accettabile che una donna in difficoltà rinunci al diritto di crescere un figlio. Non so dove abbia partorito, ma le sue parole ci hanno scosso. Che si risveglino le coscienze, ora, per un maggiore impegno da parte di Comune, consultori familiari e associazioni. Compreso il nostro Centro di aiuto alla vita, qui alla Mangiagalli. Per stare più vicini alle madri dopo la gravidanza”. Queste le parole rilasciate dal professor Fabio Mosca, direttore del reparto di Neonatologia e terapia intensiva della clinica Mangiagalli di Milano, nel corso di un’intervista al Corriere della Sera.
La notizia che una mamma a Milano abbia usufruito del servizio della culla per la vita ha fatto molto discutere, si leggono tanti commenti, sui social e sul web, di diversa natura. C’è chi vuole aiutare la madre donando denaro, a chi chiede più riservatezza. Chi si scaglia contro la nostra società e il sistema di aiuti. Ognuno ha la sua idea, ognuno ha il proprio vissuto che incide sul commento che viene pronunciato. Ma in un caso così delicato è necessario mettersi nei panni di questa donna: non ne conosciamo lo stato sociale, economico, la storia, come sia rimasta incinta, se lo abbia voluto o meno, cosa sia successo e perché ha deciso di portare avanti una gravidanza, di dare alla luce una vita seppur consapevole che non avrebbe potuto prendersi cura di lei. Queste sono tutte informazioni che non abbiamo e che non dobbiamo avere proprio perché la legge garantisce l’anonimato e sulla base di questo è necessario accettare la scelta della madre, senza giudizio né accuse, rispettando la sua libertà.
Quello che è successo, invece, è andato oltre il rispetto dell’anonimato, oltre il rispetto per questa mamma di cui si può solo immaginare lo stato di fatica e di disagio che sta vivendo. Non ci si è limitati quindi a dare tutte le cure necessarie al bambino e a procedere con le pratiche di adozione, ma la notizia, con tanto di lettera e informazioni del neonato sul peso, la descrizione corporea e la tutina che indossava, è stata consegnata alla stampa e diffusa sui social creando scalpore e commenti di ogni tipo, proprio come solo sui social si riesce a fare. Forse oggi questa donna non ha bisogno di tutto ciò, non ha bisogno di offerte economiche, né di pressioni psicologiche per tornare sui suoi passi e riconoscere il bambino. Forse vedere la propria storia dilagare sui social le porterà ancora più dolore e renderà più difficile per altre donne l’utilizzo di questo servizio, sicuro e garantito per legge. Perché è necessario ricordare che non si tratta di abbandono irresponsabile, ma di un servizio regolato a livello statale, che mette in sicurezza il bambino fin dal primo momento in cui viene appoggiato nella culla per la vita.
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