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Denis Mukwege ha ricevuto quest’anno il premio Nobel per la Pace, a settant’anni dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani. Curando le donne stuprate dai soldati congolesi, ha visto atrocità che non vuole nascondere.
È conosciuto come “il medico che ripara le donne”. A Bukavu, il suo paese natale nella Repubblica Democratica del Congo, lo amano al punto che, quando è stato costretto a fuggire in Europa, gli abitanti lo hanno supplicato di tornare, comprandogli addirittura un biglietto aereo con i propri risparmi. Al suo ritorno si sono schierati ai bordi della strada, lunga una trentina di chilometri, che porta dall’aeroporto alla città per gridargli: “Bentornato”.
Denis Mukwege ha curato più di 50mila donne nell’ospedale, il Panzi, che ha fondato nel 1998 a Bukavu. È specializzato in ginecologia ed è considerato il massimo esperto a livello mondiale nella cura dei danni fisici causati da stupro. “Le mie pazienti sono come un fazzoletto strappato: si devono riprendere i fili e riallacciarli uno ad uno”, racconta il medico in un’intervista a Tpi. È alle vittime di abuso sessuale che ha dedicato la vita, prendendosi cura ogni giorno delle donne, persino bambine, che la guerra ha lacerato nell’anima e nel corpo.
Oro, diamanti, rame, cobalto, zinco e coltan: la Repubblica Democratica del Congo è ricca di risorse. La volontà di accaparrarsele è alla base dei conflitti che si scatenano quotidianamente. E gli stupri di gruppo da parte delle milizie sono altrettanto frequenti. Durante le guerre del Kivu e dell’Ituri, dal 2004 al 2008, sono state violentate quattro donne ogni cinque minuti. A ricucire le loro ferite, a tentare di rimettere insieme i pezzi del loro cuore c’era Mukwege.
La sua prima paziente aveva subito violenze tanto gravi da non essere più in grado di trattenere urina e feci. “Compiere un atto del genere non ha nulla a che fare col desiderio sessuale. È sete di distruzione”, spiega il ginecologo. Nonostante fin dall’inizio sia stato così difficile, non si è tirato indietro: ha continuato ad aiutare migliaia di donne torturate in maniera disumana. “Gli stupri non distruggono soltanto loro, ma l’intera società. Le vittime sono considerate colpevoli dai mariti, vengono allontanate, costrette all’isolamento dal resto della comunità”. Senza contare che molte di loro si ammalano di Aids.
This year’s laureate Denis Mukwege speaking at today’s #NobelPeacePrize award ceremony. pic.twitter.com/CjRQarqoTU
— The Nobel Prize (@NobelPrize) 10 dicembre 2018
Il Panzi, però, è un rifugio sicuro. Lì le ragazze non si sentono giudicate, trovano qualcuno che dà loro la speranza di poter tornare a vivere; come cervi rimasti abbagliati dai fanali di un’auto in corsa, non sono riuscite a fuggire, sono rimaste ferite, ma qualcuno le ha prese in braccio, le ha tratte in salvo e dopo averle guarite ha ridato loro la libertà.
È incredibile vedere queste persone sofferenti che riescono ancora a ringraziare Dio, che hanno la forza di lavorare. Mi chiedo anche come facciano a cantare, quando fanno fatica a sopravvivere. Riescono ancora a cantare, e questo mi rende felice.Denis Mukwege
Il dottor Mukwege ha più volte denunciato la situazione nel suo paese, accusando il governo congolese di non aver punito gli autori degli stupri né compiuto sforzi sufficienti per porre fine all’uso della violenza come arma di guerra. In particolare, nel settembre del 2012 il medico ha pronunciato un discorso di grande impatto alle Nazioni Unite, puntando il dito contro l’intera comunità internazionale. Parole che ha pagato a caro prezzo dal momento che, il mese dopo, quattro uomini armati sono penetrati in casa sua per assassinarlo. È riuscito a fuggire, ed è allora che si è rifugiato in Europa per qualche tempo. Per poi fare ritorno a Bukavu.
Non poteva stare lontano dalle sue pazienti; per questo è stato insignito del premio Nobel per la Pace 2018, conferitogli ad Oslo a settant’anni dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani. Denis Mukwege non ha smesso di lottare contro una delle violazioni più gravi di tali diritti, una delle armi più subdole del conflitto, di cui troppo spesso si sente parlare anche dove la guerra non c’è: la violenza di genere.
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