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Il documentario realizzato da Stefano Girardi spiega l’impatto della fast fashion e un’altra moda possibile, attraverso le voci di tre realtà virtuose.
C’è un’altra moda possibile, oltre a quella usa e getta, dai ritmi forsennati, oltre alla fast fashion cui tutti siamo ormai abituati. Ed è quella che si vede nel documentario Storie di una moda possibile, realizzato da Stefano Girardi e prodotto da Mani tese e istituto Oikos, che spiega non solo gli impatti della moda veloce, ma attraverso le voci di tre realtà produttive virtuose ci racconta anche che è fattibile adottare un modello di produzione efficiente e allo stesso tempo gentile nei confronti del Pianeta.
L’industria dell’abbigliamento è una delle più impattanti a livello globale dal punto di vista ambientale e sociale. Ancor più da quando è iniziata l’era dalla fast fashion: i prezzi si abbassano, e così anche la qualità dei capi, raddoppiano le collezioni, la domanda si impenna, aumentano i volumi degli ordini e la velocità di produzione – sulla pelle dei lavoratori che la maggior parte delle volte si trovano nei paesi dove il costo della manodopera è più basso –, si riduce il ciclo di vita dei prodotti. È un circolo vizioso che potenzialmente non avrebbe mai fine, se non fosse per quelle realtà che decidono di adottare modelli di produzione più sostenibili da un punto di vista ambientale e sociale.
Realtà come Manigolde, Rifò lab e Produzione lenta, cioè le tre aziende protagoniste del documentario Storie di una moda possibile – visibile gratuitamente online sui canali Youtube di Mani tese e di istituto Oikos –, in cui Stefano Girardi ha voluto mostrare un modo diverso di produrre i nostri vestiti attraverso i protagonisti di chi quegli abiti li fa adottando modelli di business e pratiche virtuosi.
Il documentario, realizzato nell’ambito del progetto Cambia moda! – Dalla fast fashion a una filiera tessile trasparente e sostenibile, co-finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, mira a dimostrare come ci siano tante realtà produttive italiane in controtendenza rispetto alle logiche di business dominanti. Aziende che pongono l’attenzione verso la qualità, l’ambiente e le persone al centro del proprio operato.
Il 60 per cento dei vestiti in circolazione finisce in discarica entro un anno dal momento in cui viene realizzato e per la produzione di un chilogrammo di tessuto ne vengono emessi 17 di anidride carbonica. Sono le conseguenze della moda usa e getta, cui Manigolde, Rifò lab e Produzione lenta tentano di opporsi. Sono infatti loro i protagonisti del documentario.
Manigolde è una sartoria sociale al femminile, lanciata nel 2019 sulla base dell’esperienza ventennale di Mani tese Finale Emilia nella gestione di mercatini dell’usato, e crea intere collezioni a partire da eccedenze di tessuti, accessori industriali e dai capi d’abbigliamento che vengono donati.
Rifò lab, invece, sposa la filosofia dell’economia circolare e produce capi e accessori di alta qualità con fibre tessili rigenerate e rigenerabili, attingendo dal sapere artigianale dei “cenciaioli” toscani. Di Produzione lenta, infine, ci dice tutto il nome: si tratta di una micro-impresa della provincia di Cuneo che basa la propria produzione su una filosofia 100 per cento slow fashion, da cui prendono vita capi di abbigliamento biologici e sostenibili – “oltre che belli!”, come ci tengono a precisare – legati al territorio e alla natura. Sono tre esempi, ma come loro ce ne sono tanti altri, di come sia possibile fare moda senza trascurare la qualità, l’ambiente e le persone.
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