Abiti bruciati per fare spazio alle nuove collezioni. Il lato oscuro della fast fashion

L’industria tessile è la seconda più inquinante al mondo, sia dal punto di vista della produzione che dello smaltimento. Anche perché spesso il vero problema è l’invenduto.

La moda veloce ha un prezzo. E, a pagare questo prezzo, è l’ambiente. E quindi noi. Molti dei brand che hanno costruito il proprio modello di business sulla velocità con cui i loro capi d’abbigliamento vengono prodotti e posizionati sugli scaffali, sono diventati dei giganti vendendo a basso costo abiti all’ultimo grido. Dettano i trend di stagione e subito dopo ne lanciano di nuovi. Ma ci siamo mai chiesti cosa succede all’invenduto? E qual è l’impatto che rivoluzionare continuamente l’armadio per stare al passo con la moda ha sull’ambiente? In poche parole, viene da domandarsi se può esistere la fast fashion in un mondo sostenibile.

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fast fashion
Hong Kong. Un gruppo di aspiranti stilisti partecipa ad un workshop per imparare a riparare gli abiti scuciti. Nonostante la città sia nota per il consumismo dilagante, sta prendendo piede un movimento contro la fast fashion © Isaac Lawrence/Afp via Getty Images

L’inquinamento dell’industria tessile

Che l’industria tessile sia responsabile di circa il 10 per cento delle emissioni di gas serra non è un mistero. Ma per rendere meglio l’idea conviene ricordare che, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, consuma più energia del trasporto aereo e di quello marittimo messi insieme. Ma a inquinare non è soltanto il processo di produzione degli abiti: spesso non si considera quale disastroso impatto abbia la sovrapproduzione. Per una questione di posizionamento e per non svalutare la propria merce agli occhi del consumatore alcuni brand, piuttosto che concedere sconti, bruciano i capi invenduti. Lo ha apertamente rivelato Stefano Ricci al Wall Street Journal. Ma non è il solo. Nell’anno finanziario che si è concluso a marzo 2018, Burberry ha distrutto l’equivalente di 38 milioni di dollari di invenduto. Agli investitori che, secondo Bloomberg, hanno chiesto spiegazioni riguardo a questa pratica, la società ha risposto che avrebbe presto cambiato atteggiamento, impegnandosi a donare o riciclare gli abiti e, soprattutto, a produrre solo quanto la gente può comprare.

Anche H&M produce più di quanto sia in grado di vendere, con l’aggravante che non ha fermato né diminuito la produzione, ma continua a sfornare nuovi abiti. Il gigante svedese ha annunciato nel 2018 di avere l’equivalente di 4,3 miliardi di dollari – una cifra destinata a crescere – di inventario invenduto, tanto che molti capi sono stati smaltiti a prezzi scontati.

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Il brand è ancora lontano dal proporre una moda etica e giusta, con capi durevoli e senza tempo; ha però compiuto alcuni passi nella giusta direzione. Dal 2013 offre un programma di riciclaggio dei vestiti in cambio di sconti; entro il 2030 utilizzerà solo materiali riciclati o provenienti da fonti sostenibili; per il 2040 cercherà di ridurre o compensare le emissioni di gas serra dell’intero processo di produzione, prendendo in considerazione anche nuove tecniche di assorbimento dell’anidride carbonica. Inoltre, collaborerà con i governi dei Paesi nei quali opera per installare pannelli solari e altre soluzioni che garantiscano la fornitura di energia rinnovabile. Infine, ha iniziato a studiare come produrre tessuti a partire dalla buccia d’arancia e dalle foglie di ananas. 

Fast fashion Vs slow fashion, le abitudini dei consumatori stanno cambiando

Spiace dirlo, ma i brand non diventano sostenibili da soli: sono trainati dalla domanda. Proprio secondo l’amministratore delegato di H&M, Karl-Johan Persson, è sbagliato condannare il consumismo. Ad ottobre del 2019 ha dichiarato all’agenzia di stampa Bloomberg che tentare di diminuire l’impatto ambientale delle persone, incoraggiandole a comprare meno, avrebbe “conseguenze sociali devastanti”. “Senz’altro dobbiamo ridurre il nostro impatto sull’ambiente – ha chiarito Persson –, ma dobbiamo allo stesso tempo continuare a creare opportunità lavorative, impegnarci per avere un’assistenza sanitaria migliore, occuparci di tutte le questioni che accompagnano la crescita economica”.

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Ciò che forse più conta è che i consumatori cambino le proprie abitudini di consumo. A questo proposito, molti hanno mostrato una maggiore sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali e manifestato interesse a comprare prodotti sostenibili. Secondo un’indagine Nielsen, il 48 per cento dei cittadini statunitensi afferma di voler cambiare le proprie abitudini di acquisto per ridurre l’impronta che ha sull’ambiente. E i dati lo dimostrano: nel 2018 sono stati spesi ben 128,5 miliardi di dollari in beni sostenibili di largo consumo. I più sensibili – o preoccupati? – sono i giovani: il 53 per cento dei ragazzi e delle ragazze tra i 21 e i 34 anni dichiara di aver abbandonato noti brand in favore di marchi eco-friendly; solo il 34 per cento delle persone tra i 50 e i 64 anni può dire la stessa cosa.


C’è poi chi si affida all’usato, mettendo in pratica il motto reduce, reuse, recycle: i siti online che vendono abbigliamento di seconda mano, come Thredup inc. e Poshmark, sono diventati famosi negli ultimi dieci anni circa. Chi si vuole sbarazzare di abiti che non mette più, ma sono ancora in buono stato, li vende online; chi li compra risparmia e contribuisce a non inquinare. Che sia una moda, una soluzione per guadagnare qualcosina o effettivamente una dimostrazione d’affetto nei confronti del Pianeta, non lo sappiamo. Quel che è certo è che Thredup riceve 100mila capi d’abbigliamento da donna e bambino al giorno.

Foto in apertura © Phil Walter/Getty Images

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