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La scelta di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme non è un regalo per Israele: è la condanna all’isolamento e alla paura.
Del 14 maggio 2018 non potrà che passare alla storia la distanza. Quella tra la cerimonia d’inaugurazione dell’ambasciata degli Stati Uniti, spostata simbolicamente da Tel Aviv alla città contesa di Gerusalemme, e la striscia di Gaza, dove un popolo armato solo della sua disperazione veniva massacrato da un esercito regolare. Quella, profonda, tra i due artefici della decisione, il premier dello stato d’Israele Benjamin Netanyahu e il presidente americano Donald Trump, e la maggior parte delle diplomazie del resto del mondo. Quella, siderale, tra la lungimiranza di chi ha puntato in passato su una soluzione diplomatica e chi, oggi, sceglie la via della guerra.
“Questo è un giorno di gloria. Un grande giorno per Gerusalemme. Ricordatevi di questo momento”. Netanyahu aveva un sorriso stampato sul volto, mentre tagliava il nastro della sede diplomatica americana, nel settantesimo anniversario della creazione di Israele: un giorno di festa per Tel Aviv, la “catastrofe” (Nakba) per i palestinesi, costretti ad abbandonare in massa la loro terra e a rifugiarsi nei Territori. “Il presidente Trump, riconoscendo la storia, oggi fa la storia”, ha affermato il premier israeliano.
Occorre risalire al 2014 per trovare le cronache di una carneficina peggiore di quella di lunedì scorso, costata la vita ad almeno 64 civili (tra i quali anche dei bambini) e che ha provocato oltre 1.500 persone ferite da pallottole. Nel 2014, però, a Gaza c’era la guerra. Nel cielo volavano gli F16, a terra sparavano i carri armati e sui soldati israeliani piovevano razzi. Lunedì no. Non un solo colpo d’arma da fuoco è stato esploso dalla folla che manifestava. Certo, in molti si sono avvicinati alla frontiera. Certo, qualcuno ha lanciato delle pietre. Certo, qualcuno ha incendiato degli pneumatici. E probabilmente alcuni sono stati strumentalizzati da Hamas. Ma nulla di tutto questo può giustificare il comportamento dei militari israeliani.
This happened too – pretty sure elites snipers know what and where they are targeting pic.twitter.com/faRx8GxcKd
— Hoda Abdel-Hamid (@HodaAH) 15 maggio 2018
I cecchini non hanno risparmiato neppure gli operatori dell’informazione. Alcuni video girati da una troupe della televisione Al Jazeera mostrano una giornalista sfiorata da una pallottola, poi un drone che lancia gas urticanti contro i reporter. “Impossibile pensare che i tiratori scelti non sapessero contro chi stavano sparando”, ha commentato in un tweet l’inviata che ha rischiato la vita.
Freelance journalist Abed Al Rahman Al-Kahlout was injured while covering yesterday’s rallies in #Gaza #GazaReturnMarch he sustained a bullet to the leg shot by #IsraeliSniper @rorypecktrust pic.twitter.com/DYI4Us6JoW — JSCommittee (@jscommittee) 28 aprile 2018
Fatti del tutto inconciliabili con la democrazia: ciò che succede nella Striscia di Gaza deve essere raccontato. Devono essere raccontati gli spari sulla folla, deve essere raccontata la miseria nella quale sono costretti a vivere gli abitanti della Striscia di Gaza, deve essere raccontata la disumanizzazione in atto in quella parte di mondo.
Targeting journalists won’t make the Gaza problem go away : pic.twitter.com/vmAFyVv5zX
— Hoda Abdel-Hamid (@HodaAH) 15 maggio 2018
In un contesto simile, la scelta dell’amministrazione Trump di allinearsi alle posizioni del Likud, il partito conservatore di Netanyahu, non è affatto un regalo per Israele (e in pochi, oggi, credono alle dichiarazioni ufficiali che parlano di ricerca di un percorso di riconciliazione).
È la condanna all’isolamento politico internazionale, già avviato ieri con il ritiro degli ambasciatori da parte della Turchia e del Sudafrica. Ed è, soprattutto, la condanna per gli israeliani a continuare a vivere nella paura. Perché la storia insegna che soltanto la pace può garantire stabilità e sicurezza.
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