Il fabbro che costruì l’uomo

Il mito e la fiaba, con la loro potente carica simbolica, suggeriscono da sempre autentiche risposte di senso, soprattutto a proposito del narcisismo umano.

«Un giorno il re chiese a Walukaga, il capo dei fabbri del
suo regno, di costruire un uomo vero: un uomo che sapesse camminare
e parlare, che avesse il sangue nel corpo e il cervello. Il fabbro
prese il ferro ma non sapeva da dove cominciare e nessuno era in
grado di consigliarlo.

Incontrò un suo vecchio amico, ora divenuto folle, e
costui seppe indicargli la via da seguire. Il fabbro andò
dal re e, come gli aveva suggerito l’amico, domandò al re di
ordinare al suo popolo di raparsi e di bruciare i capelli per
ricavarne mille staia di carbone per lavorare il ferro e poi
mettere insieme cento pentole d’acqua di lacrime per smorzare
l’intensità del fuoco.

Il re diede l’ordine ma si rese ben presto conto che il
materiale richiesto non poteva essere procurato. Walukaga
dimostrò così al re l’impossibilità di
realizzare quanto richiesto. E tutti coloro che avevano assistito
al fatto risero e sentenziarono che il fabbro aveva detto la
verità».

Questa suggestiva fiaba ugandese, con tutta la ricchezza
simbolica di cui è intessuta, ci suggerisce una parola
definitiva sul narcisismo umano, soprattutto là ove tracima
nella perversa volontà di potenza, e, quindi, sulla
necessità di riconoscere il limite che da sempre ci
abita.

Siamo ?terricoli?, radicati in terre di frontiera, sospesi tra
chiarore e oscurità, maledizione e redenzione, purezza del
bene e opacità del male.
Non possediamo forme di sapere assolute e incontrovertibili, non
siamo custodi di progetti totalizzanti, bensì, molto
più umanamente, di progetti a corto raggio, ?ragionevoli?,
per dirla con il filosofo Paolo Rossi.

Solo avendo una chiara coscienza del proprio limite, si
può iniziare a dare voce alla speranza, sia essa, come per
chi scrive, radicata nella trascendenza, oppure nell?immanenza
della storia umana; sia essa alimentata dal disegno imperscrutabile
della Verità eterna, oppure espressiva delle provvisorie,
precarie, limitate verità umane, ?quelle – come ricordava
Primo Levi ? che si conquistano faticosamente con lo studio, la
discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate o
dimostrate?.

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