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Filosofo della natura incontaminata, ispiratore del movimento dei Diggers, vive con la sua famiglia in California. Oltre al mestiere di scrittore, lavora a progetti bioregionalisti.
La wilderness è al centro del pensiero di Gary Snyder, il mondo selvaggio celebrato nelle sue opere che avvicinato con generosità, umiltà e rispetto diventa il galateo della libertà. Per il poeta e saggista tra i maggiori della Beat Generation, ambiente, economia e cultura sono viste come un tutto interrelato e interreagente. Per questo la crisi del modello di vita occidentale è la conseguenza del processo di civilizzazione che ha provocato la rottura della sacra e antica alleanza fra Uomo e Natura, esaltata ed evocata per millenni dalle antiche culture tradizionali.
Una frattura insanabile creata dall’illusione moderna dei valori positivisti. Snyder elabora la sua filosofia e la concezione magica del ruolo del poeta proprio dallo studio appassionato del mondo degli Indiani d’America, dei loro miti e delle forme di divinazione ancora oggi radicate nelle culture amerindiane, nonché dallo studio del cinese classico e della poesia orientale, e una vigile interrogazione della natura.
Nato nel 1930 a San Francisco, fin dall’adolescenza egli vive a contatto della natura e di espedienti per le strade di Portland. Studia antropologia e si specializza a Berkley in filosofie orientali. Lavora anche nel Corpo forestale americano, partecipa alla lettura pubblica al Six Gallery, assieme a J. Kerouac, W. Burroughs, P. Whalen, A. Ginsberg, M. McClure. Si trasferisce in Giappone nell’isolotto di Suwanose dove vivrà di pesca, coltivando la terra e praticando il Buddhismo Zen per quasi quindici anni.
Al ritorno negli Usa scriverà alcune delle sue opere più importanti e riprenderà a viaggiare. Nonostante l’attualità e la forza di suggestione del suo pensiero, Gary Snyder ha stentato a imporsi in Italia, dove per molti anni è stato relegato al ruolo di portavoce di uno stravagante idealismo ambientalista. La sua importanza, nello sviluppo di una coscienza del mondo naturale attuale che nel modo meno equivoco è antiaccademica e anticostituzionale, è però fuori discussione.
Tanto più stimolante è perciò la recente traduzione italiana di uno dei suoi libri più interessanti, il cui titolo “L’isola della Tartaruga“, rimanda all’antico nome mitico attribuito dai nativi al continente nordamericano. Ancora una volta sono i miti degli indiani nordamericani a guidare Snyder nell’interpretazione dei mille simboli apparentemente senza senso che popolano la nostra vita, e attraverso i quali è possibile riappropriarsi di un patrimonio storico e magico incommensurabile, che stimola alla conoscenza e riavvicina alla “vita selvaggia” e alle origini della nostra storia.
Nell’esercizio della poesia, fortemente influenzata da l’haiku giapponese, e attraverso pagine di diario, Snyder insiste sul pericolo e l’inutilità di una società basata sul consumo, che porta allo sperpero più sfrenato delle risorse naturali. Una società dominata dall’autoritarismo e dalla repressione, ossessionata dall’ipervalorizzazione del lavoro e del progresso. In tutto questo, l’indiano non è più il “vanishing American”, l’americano che va scomparendo; egli si manifesta, ritorna. Attraverso parole e simboli antichissimi.
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