L’uccisione di Giulia Cecchettin ci fa capire che dobbiamo lavorare molto, anche nella comunicazione

La tragica uccisione di Giulia Cecchettin ci dice molte cose sulla scorrettezza della comunicazione e sulla necessità della prevenzione.

Giulia Cecchettin è stata uccisa, Filippo Turetta fermato in Germania. E non ci sarebbe neanche bisogno di spiegare chi sono, perché anche chi di solito non legge i giornali e non guarda la televisione è stato in qualche modo investito dalla storia della giovane laureanda veneta, la 105esima donna uccisa solamente nel 2023 dalla furia cieca di un compagno, di un ex, di un convivente e dalla nostra cultura maschilista e patriarcale. Numeri in linea con quelli del 2022, se non persino lievemente superiori. Proprio la stampa italiana, che sul caso di Giulia Cecchettin si è soffermata in modo particolare, ha un ruolo importante nel raccontare questi fatti e nel veicolare messaggi verso l’opinione pubblica. Un ruolo riconosciuto anche dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul, dal 2011 il principale punto di riferimento internazionale contro la violenza di genere. Tuttavia, non sempre la narrazione giornalistica è corretta e rispettosa delle vittime, delle loro famiglie e l’attenzione morbosa su alcuni dettagli, l’uso di prospettive e parole sbagliate, alcune scelte editoriali discutibili, hanno contraddistinto in modo particolare proprio la narrazione del fatto di cronaca legato al femminicidio di Giulia Cecchettin.

Come la stampa ha trattato il caso di Giulia Cecchettin

Un quotidiano nazionale ha sentito l’esigenza di trasformare in vignette i momenti dell’aggressione nei confronti di Cecchettin, prendendo spunto dal video di una telecamera rinvenuto dagli inquirenti. Un’altra grande testata nazionale ha pubblicato le immagini “esclusive” riprese dal drone del lago di Barcis, dove è stato ritrovato il corpo della vittima. Due approcci che puntano alla spettacolarizzazione della tragedia. E poi soprattutto l’umanizzazione dell’aggressore: la reiterazione del racconto del giovane con la “faccia da bravo ragazzo”, che fino a prova contraria (poi provata), “non avrebbe fatto del male a una mosca”. Lo stesso aggressore che oggi, su una pagina di un terzo giornale, viene descritto “stanco e rassegnato”. Fino al quotidiano sportivo che, parallelamente al caso di Giulia Cecchettin, nei giorni scorsi pubblicava online un approfondimento sulla vicenda del pugile argentino degli anni Settanta, Carlos Monzon, che strangolò la compagna e la gettò dal balcone, nella rubrica intitolata Stars in Love (avete letto bene).

Più in generale, troppo spesso si trova sui mezzi d’informazione l’uso di stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della donna, che possono alimentare una cultura sessista e maschilista: “Ci si è affrettati a definire mia madre prostituta, ma è solo la vittima di un uomo violento”, ha detto proprio in questi giorni la figlia di Marta Castano Torres, una donna colombiana uccisa a Roma lo scorso anno, dopo che il caso della madre era stato trattato come quello di “una prostituta uccisa”.

Oppure l’attribuzione di colpe e responsabilità alla vittima, per il suo comportamento, il suo aspetto, la sua relazione che avrebbero potuto giustificare o attenuare l’azione dell’assassino: è la cosiddetta vittimizzazione secondaria che spinge poi molte donne ad aver paura di denunciare le violenze subite. E ancora la mancanza di contesto e approfondimento del fenomeno, che può ridurre il femminicidio a un fatto isolato, emotivo o passionale, a un racconto di pura cronaca, pieno di dettagli (è proprio il caso di Giulia Cecchettin) invece che a un atto di violenza sistemica e strutturale. Tutte questioni che possono avere un effetto distorsivo e deleterio sui lettori che possono sviluppare una percezione superficiale e non veritiera sulle cause di un femminicidio.

Non è un caso se la Convenzione di Istanbul prevede alcuni alcune disposizioni che richiedono ai governi e ai mezzi d’informazione di adottare una comunicazione responsabile e consapevole della violenza di genere, che non banalizzi, minimizzi o normalizzi il fenomeno, ma che ne evidenzi le cause e le soluzioni, nel rispetto delle vittime e della parità di genere. In particolare, la convenzione stabilisce che gli stati debbano incoraggiare i media a impostare linee guida e autoregolamentazione per prevenire la violenza contro le donne e per migliorare il rispetto della dignità delle donne (articolo 17).

E ancora, a promuovere programmi e attività per la sensibilizzazione del pubblico, in particolare dei giovani e degli uomini, sui diversi aspetti e le conseguenze della violenza contro le donne e la violenza domestica (articolo 13), sostenere le iniziative e le campagne di informazione e sensibilizzazione delle organizzazioni non governative e della società civile che si occupano di violenza contro le donne e violenza domestica (articolo 9).

Cosa prevede la deontologia professionale

Lidia Marassi, giornalista del Quotidiano del Sud e da sempre molto attenta alla tematica della violenza di genere, già due anni fa, al tempo della morte di Chiara Ugolini, la giovane ragazza aggredita e uccisa all’interno della sua abitazione nel veronese, aveva richiamato la categoria al rispetto delle regole deontologiche introdotte dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti per il Testo unico dei doveri del giornalista (entrate in vigore il 1 gennaio 2021) . Regole che prevedono che nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale, il giornalista:

  • a) presta attenzione a evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona;
  • b) si attiene a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole. Si attiene all’essenzialità della notizia e alla continenza. Presta attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza. Non usa espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso.

In quell’articolo, pubblicato anche sul sito dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Marassi scrive che “quando la vittima è donna si cerca quasi sempre un deterrente nella sua morte, un alibi che possa spiegare le azioni dell’assassino, una storia personale complicata, un passato burrascoso, qualcosa che possa motivare la violenza del carnefice”. E ancora: “Quest’ultimo diventa il protagonista delle cronache, mentre la vittima sbiadisce sullo sfondo, nei dettagli”.

E sulla spettacolarizzazione: “Questa tendenza a voler raccontare gli eventi come se si trattasse di trame romanzesche, oltre ad essere innanzitutto poco efficace da un punto di vista comunicativo finisce inevitabilmente per sminuire la gravità della violenza e denota una certa reticenza nell’ammettere l’esistenza di un problema socio-culturale”. Parole che oggi, a due anni di distanza, sono lo specchio della trattazione del caso di Giulia Cecchettin: la scelta di laurearsi alla base della reazione di Filippo Turetta, gli articoli sul carnefice, le dirette live sulla sparizione e la fuga, i dettagli da film noir (l’arma, lo scotch, i sacchi, il contante…) : c’è tutto il campionario.

Gli sforzi messi in campo dallo stato italiano

L’Italia negli ultimi anni ha fatto molto per contrastare la violenza di genere, mettendo in campo diverse iniziative legislative, istituzionali e sociali. Tutte ispirate dalla Convenzione di Istanbul, che è stato un motore straordinario. Tra queste ci sono il Codice rosso del 2019, poi rinforzato nel 2022, che ha introdotto misure urgenti per la prevenzione e il contrasto della violenza domestica e di genere, tra cui l’obbligo di denuncia da parte delle forze dell’ordine, l’allontanamento immediato del maltrattante, il divieto di avvicinamento alla vittima, il monitoraggio elettronico dell’aggressore, l’assistenza legale e psicologica per le vittime.

E poi il Piano nazionale di azione contro la violenza maschile sulle donne e la violenza domestica 2020-2022, che prevede una serie di interventi coordinati e integrati tra i diversi livelli istituzionali e i vari soggetti coinvolti, tra cui la promozione di una cultura di rispetto e parità di genere, il potenziamento dei servizi di accoglienza e sostegno per le vittime, il rafforzamento del sistema di prevenzione, protezione e repressione della violenza, il monitoraggio e la valutazione delle azioni realizzate. E la campagna di sensibilizzazione Non è normale che sia normale, lanciata dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri che mira a contrastare gli stereotipi di genere e a diffondere una cultura di rispetto e consapevolezza tra i giovani, attraverso spot televisivi, radiofonici e sui social media, testimonial famosi, materiali informativi e formativi nelle scuole e nelle università.

Il ruolo della scuola, secondo la Convenzione di Istanbul 

osservatorio violenza sulle donne
In Italia nel 2022 sono state uccise già 105 donne © Pixabay

Quello che ancora manca o non funziona, a detta anche di buona parte dell’associazionismo italiano, è proprio la prevenzione, che non a caso è la prima, la più importante delle quattro P su cui si basa la Convenzione di Istanbul. E di cui anche la comunicazione fa parte. A inizio novembre, il mese del black friday ma anche della giornata per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne (25 novembre), per esempio ActionAid ha lanciato la campagna Black freeday, con l’attrice Claudia Gerini come testimonial, sottolineando che quest’anno lo “sconto più grande è quello fatto dall’attuale governo sui fondi per la prevenzione della violenza di genere nel corso dell’ultimo anno: meno 70 per cento. Dagli oltre 17 milioni di euro del 2022 ai 5 milioni attuali stanziati per il 2023. Ma puntare al ribasso non conviene affatto quando si tratta di combattere la violenza maschile sulle donne”.

Negli ultimi dieci anni i fondi anti-violenza sono aumentati del 156 per cento, spiega la vicesegretaria generale Katia Scannavini, ”però non sono diminuiti i femminicidi. Significa che non si sta affatto investendo nel modo più corretto per fare sì che il fenomeno venga contrastato all’origine”, ovvero prima che avvenga.

Per farlo, ormai sono tutti d’accordo, è fondamentale agire sugli schemi culturali della società in cui cresciamo, ancora impregnata di maschilismo e patriarcato: dunque a partire dalla scuola, oltre che dalla comunicazione. Lo dice ovviamente, ancora una volta anche la Convenzione di Istanbul, che chiede ai paesi firmatari di adottare tutte le misure necessarie per promuovere cambiamenti negli atteggiamenti e nei ruoli sociali di donne e uomini, al fine di eliminare i pregiudizi, le pratiche, le tradizioni e gli altri stereotipi di genere, inserendo queste tematiche nei programmi scolastici, garantendo una adeguata formazione per i professionisti che lavorano in ambito educativo, sostenendo anche il lavoro di sensibilizzazione delle stesse organizzazioni non governative e altri soggetti della società civile. Peccato che appena lo scorso 26 ottobre la Camera dei deputati abbia approvato l’ennesimo disegno di legge in materia di contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica bocciando però un emendamento che prevedeva l‘insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole a partire dalle elementari: “Una nefandezza”, secondo le parole del deputato leghista Rossano Sasso, dalle quali in molti nella maggioranza si sono dissociati. La politica ha ancora la possibilità di rimediare, inserendo la modifica nel passaggio al Senato previsto proprio questa settimana.

Nel frattempo, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha annunciato un piano urgente contro la violenza di genere, che prevede l’introduzione di lezioni di “educazione alle relazioni” nelle scuole secondarie di secondo grado, ovvero licei, istituti tecnici e professionali. L’obiettivo proprio quello di affermare e diffondere tra i giovani la cultura del rispetto, della parità di genere e del contrasto ad ogni forma di violenza. Secondo le anticipazioni, le lezioni saranno tenute dagli stessi studenti, guidati da esperti del settore, come psicologi, avvocati e rappresentanti delle associazioni in difesa delle vittime di violenza. Ogni gruppo di alunni dovrà approfondire un determinato aspetto della violenza di genere, come la percezione di sé, gli stereotipi, il consenso, il cyberbullismo, il femminicidio. Continueremo a monitorare per capire se le promesse si trasformeranno in fatti.

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