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La base di Camp Century, in Groenlandia, fu chiusa nel 1967. Ora potrebbe riemergere per via dello scioglimento dei ghiacci. Scienziati sul posto.
“Possiamo lasciare tutto qui, questi sono ghiacci perenni, nulla potrà mai fuoriuscire”. Era il 1967: il comando dell’esercito degli Stati Uniti decideva di abbandonare definitivamente una base militare aperta nel 1959 in Groenlandia. Si tratta di “Camp Century”, sito immenso e unico al mondo, costruita 65 metri al di sotto della superficie glaciale e capace di ospitare alloggi per 200 soldati, numerosi laboratori, un ospedale, una chiesa e un cinema. Il tutto collegato attraverso un sistema di tunnel sotterranei.
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Gli ingegneri dell’esercito americano, però, non avevano fatto i conti con lo spostamento delle placche della calotta, troppo repentino e veloce per garantire la tenuta della struttura. I tunnel rischiavano di venire schiacciati, le infrastrutture di cedere. È per questo che, dopo alcuni anni, si decise la chiusura di Camp Century. A decenni e decenni di distanza, però, si scopre che ci fu un secondo errore di valutazione da parte dei militari statunitensi: quello di non prendere in considerazione i cambiamenti climatici.
È proprio a causa del riscaldamento della temperatura media sulla superficie di mari e terre emerse che, in futuro, l’intera base militare è destinata con ogni probabilità a riemergere. Quel giorno, non basterà smantellarla e ripulire l’area: negli anni Novanta, infatti, sono state desecretati alcuni documenti, dai quali si evince che nella base vennero sotterrate e abbandonate ingenti quantità di rifiuti tossici e radioattivi.
L’uso del territorio della Groenlandia, in effetti, fu concesso dalla Danimarca (che all’epoca controllava la grande regione artica) sulla base di un accordo nel quale gli Stati Uniti indicarono che l’area sarebbe stata utilizzata al fine di effettuare una serie di esperimenti scientifici. In realtà, Camp Century fu il fulcro del “Progetto Iceworm”, attraverso il quale Washington puntava ad installare 600 missili nucleari puntati verso l’Unione Sovietica.
Inoltre, per alimentare la base, fu posizionato in loco un piccolo reattore: si tratta dell’unica struttura portata via dagli Usa nel 1967. Ma l’acqua utilizzata per il raffreddamento, radioattiva, è rimasta sul posto. Così come numerose sostanze tossiche pericolose: alcuni composti di cloro cancerogeni, nonché altri liquami inquinati. Secondo quanto riferito dal quotidiano svizzero Bluewin, i rifiuti sarebbero “talmente tanti da poter riempire 30 Airbus”.
Il giornale cita in particolare un climatologo canadese, William Colgan, che è partito con una squadra di scienziati al fine di valutare la situazione. Già un anno fa, era stato autore di uno studio pubblicato sulla rivista scientifica “Geophysical Research Letter”, nel quale confermava che il riscaldamento globale potrebbe far riemergere i rifiuti, con il rischio concreto di contaminare l’ambiente circostante.
I primi carotaggi hanno fatto riemergere i segni delle attività umane: a 35-40 metri di profondità si sono riscontrati strati di ghiaccio sporco e un leggero odore di idrocarburi. Gli esperti dovranno analizzare tutti i reperti al fine, da un lato, di tentare di tracciare una mappa del sito. Dall’altro, di valutare i rischi ambientali. Sapendo che nella regione artica il riscaldamento climatico procede a ritmi ben più marcati rispetto al resto del mondo.
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