Popoli indigeni

Human Forest, gli scatti che svelano la foresta vergine in Amazzonia e la comunità Waorani

Un viaggio in solitaria in Amazzonia è diventato un racconto fotografico che vuole rivendicare l’autenticità di un territorio e del suo popolo. In mostra a Milano.

È il primo lavoro fotografico di Marina Tana quello esposto alla Galleria al142 di Milano fino al 31 ottobre, eppure il suo progetto Human Forest sembra frutto di una grande esperienza, non solo di “scatto” ma anche narrativa, introspettiva e addirittura etnografica. Ciò che Marina racconta è un suo viaggio, un’esperienza personale, che ha ritenuto far divenire pubblica per condividere un messaggio importante. La meta è l’Amazzonia che ha esplorato da sola per due mesi nel 2017, dove ha potuto conoscere da vicino la comunità indigena Waorani di Bameno, in Ecuador, a cui è dedicato questo racconto per immagini. Lo scopo è diffondere, specie alle giovani generazioni, l’importanza della consapevolezza.

L’Amazzonia, quella vera, negli scatti raccolti in Human Forest

Una piccola galleria milanese – in viale Monza 142 – espone fino al 31 ottobre una serie di scatti di Marina Tana dal titolo “Human Forest”.

Perchè questo titolo al reportage fotografico sull’Amazzonia?
Ho intitolato il mio progetto fotografico Human Forest riflettendo sugli incendi della scorsa estate in Amazzonia. Mi aveva molto impressionato il fatto che si parlasse di ciò che succedeva alla natura e agli animali ma non agli abitanti, alle comunità. Ricordo benissimo le parole del Presidente Macron che disse – Casa nostra sta bruciando -. In realtà non era casa sua, ma loro, degli indigeni che purtroppo però non hanno diritto di parola perché non sono riconosciuti come soggetti politici. Anche per questo il mio lavoro, la mia esperienza in Amazzonia è dedicata a loro.

Marina Tana, qual è la sua storia di fotografa e di viaggiatrice?
Viaggio in solitaria dal 2014 e nello stesso periodo mi sono avvicinata alla fotografia. Non ho fatto studi specialistici in questo senso, sono ingegnere. Ma la fotografia è stato il mezzo per avvicinarmi all’esperienza di viaggio in maniera più intima. Non è mai stata uno scudo dietro cui nascondermi, ma anzi, grazie alla macchina fotografica mi è sempre sembrato di fondermi meglio nell’ambiente in cui stavo. Per me la fotografia in viaggio è un ulteriore spazio di riflessione, elaborazione e ricerca personale.

Mostra Human forest
Human Forest, Ecuador Yasuní 2017 © Marina Tana

Come è nato il progetto Human forest e come si è preparata ad affrontare il viaggio?
Nel 2017 ho deciso di partire per l’Amazzonia, un viaggio personale, per scoprire questa parte di mondo che ho sempre immaginato sin da piccola. L’ho affrontato da sola e prima di intraprenderlo mi sono molto informata: ho studiato per 6 mesi, letto libri sulla storia dell’Amazzonia, testi etnografici, analizzato reportages fotografici, consultato blog di viaggio. Volevo fosse anche un viaggio consapevole dal punto di vista sociale, economico e politico. Non desideravo un’esperienza fast food: volevo capire quest’enorme regione attraverso un viaggio lungo, via fiume. Intendevo partire dall’Ecuador perché lì nasce uno degli affluenti più importanti del Rio delle Amazzoni e poi seguire il corso del fiume fino alla sua foce. Quindi attraversare Perù, Colombia e Brasile (quest’ultimo alla fine ho deciso di tralasciarlo).

Come è avvenuto l’incontro con la comunità Waorani?
Ho contattato la comunità Waorani grazie a una petizione trovata on line su change.org del 2014. I Waorani vivono in Ecuador nella zona pre amazzonica. La comunità con cui ho interagito ha deciso di stabilirsi invece nella foresta vergine, quella ancestrale dei loro avi. Si tratta di un popolo che ha contatti con l’esterno e si è battuto con forza per autodeterminarsi: vogliono salvaguardare la foresta che per loro è vita e cultura. Qui, in queste comunità, si pratica il turismo comunitario: cioè nel loro villaggio vengono ospitati turisti che condividono le proprie tradizioni. Si tratta comunque di poche persone – 150 circa all’anno – perché è un posto molto difficile da raggiungere e il viaggio è davvero oneroso.

Noi comunicavamo in spagnolo anche se non è stato sempre semplice: gli anziani non lo parlano e altri usano dei dialetti. La prima settimana l’ho vissuta anch’io all’interno del turismo comunitario, poi ho continuato il viaggio fino al Brasile. Tornando indietro ho deciso di convivere con loro per 3 settimane e sono stata accettata. Desideravo un contatto “esclusivo” con la foresta e con la comunità, che fosse reale. Il turismo comunitario infatti a mio parere genera comunque delle storture: chi arriva guarda con l’occhio condizionato dal proprio etnocentrismo. E si perdono alcuni aspetti di autenticità. Ciò che pensiamo di queste popolazioni, spesso sono solo preconcetti e realtà stereotipate che purtroppo continuano a portare avanti l’immagine del buon selvaggio di Rousseau, che non è quella vera a mio parere.

Human forest
Amazzonia Human Forest Ecuador Yasuní 2017 © Marina Tana

Come è stata l’esperienza di convivenza con i Waorani?
Sono una persona molto empatica e mi sono trovata subito bene con loro. Sono stata coinvolta in attività quotidiane come la caccia, la pesca, la raccolta di frutti, e anche in alcuni momenti di socialità. È stato tutto molto naturale. Ho interagito con alcuni più di altri in una comunità di circa 60 persone. Si tratta infatti di un nucleo famigliare allargato, della famiglia del leader politico e di altri suoi parenti.
Loro sono abilissimi cacciatori, sono in grado di leggere le tracce degli animali e conoscono il territorio e le piante in modo meticoloso. Gli uomini si allontanano per 2 o 3 giorni per cercare cibo, ma se vanno vicino casa, vengono seguiti da tutta la famiglia. Uomini e donne si ripartiscono le attività in modo paritetico, si possono vedere sia uomini seminare, che donne portare in spalla animali molto pesanti.

Human forest
La fotografa Marina Tana in un momento di svago con le donne Waorani © Manuel Avilés Prieto

Cosa ha imparato in Amazzonia?
Ho imparato ad avere più attenzione, intendo nell’approcciarmi alla realtà in cui entro. E anche a ripulire il mio sguardo dai pregiudizi. Ora non giudico più o molto meno di quanto facessi prima. Ho lavorato per cercare di capire cosa sia l’etnocentrismo con cui noi guardiamo le realtà che noi chiamiamo il terzo mondo. Quando sono partita non sapevo cosa avrei trovato in Amazzonia ma non ho reagito con sorpresa a ciò che ho visto e mi sono trovata a vivere. Spesso invece ho visto persone stupite, quasi deluse perché non avevano visto ciò che credevano e si immaginavano. Molti speravano di incontrare degli esseri “inevoluti”, ma questo non è altro che il frutto di un nostro stereotipo. Ci sono molte contraddizioni perché la globalizzazione e il consumismo sono arrivati anche lì.
La foresta vergine è un groviglio, meravigliosa. Ma alzi la testa e passano gli aerei, c’è internet, il wi-fi, l’energia elettrica e tutto il resto. Gli adulti Waorani si impegnano a preservare la propria cultura, ma i giovani hanno tagli di capelli moderni, desiderano scarpe alla moda. Non sono “primitivi”, parola che ha in realtà un senso dispregiativo, lo sono solo per noi. Poi però esiste anche una zona intangible, dove alcune popolazioni hanno scelto di stare in isolamento volontario.

La mostra Human Forest di Marina Tana curata da Paola Riccardi è visitabile sino al 31 ottobre a Milano, alla Galleria al142 in viale Monza 142. Orari di apertura: giovedì, venerdì e sabato dalle 16:30 alle 19:30; gli altri giorni su appuntamento, per info 3402554947. L’ingresso è gratuito

 

 

 

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